Testimonianze

Testimonianze di persone che lo hanno conosciuto

Farina 2033 – lettere e docum. vari
Cordoglio per la morte di mons. Farina

MUNICIPIO DI FOGGIA

CITTADINI!
S.E. MONS. FORTUNATO M. FARINA


che sino a qualche giorno fa ha retto, con tanto amore e per circa trent’anni la nostra Diocesi, santamente è volato al cielo a ricevere il premio delle Sue virtù delle grandi attività svolte nel Suo lungo e prodigioso apostolato di fede e di carità.

Legato a questa città – memore delle primizie del Suo zelo pastorale – da affetto profondo e filiale e dalla fede nella Nostra SS. Vergine dei Sette Veli, Egli, pur elevato alla dignità di Arcivescovo di Adrianopoli di Onoriade non si era voluto allontanare da questa Diocesi, quasi presagendo il Suo vicino trapasso.

Anima buona e pia, dalla parola sempre calda di amore e dal cuore sempre pronto e sollecito a sollevare ogni miseria, Egli nulla ha tralasciato, né la fatica del corpo, né il travaglio dello spirito per inculcare la fede nel popolo, il quale sentiva forte il benefico influsso della Sua grande anima e il profumo delle Sue preclari virtù.

Le opere che lascia cantano la sua gloria e formano un concerto di laudi perenni al Suo grande spirito.

La cittadinanza è invita a prendere parte al corteo funebre che muoverà dal Palazzo Vescovile, oggi alle ore 16.

Dalla Sede Comunale, li 21 febbraio 1954

IL SINDACO
AVV. GIUSEPPE PEPE



Bollettino Incoronata (pagina staccata, senza data),
pochi giorni dopo il 20-2-1954, data di morte di Mons. Farina

(p.10) Monsignor
FORTUNATO MARIA FARINA
Arcivescovo di Adrianopoli di Onoriade
già amatissimo Vescovo di Foggia

è morto


A Lui i Figli di D. Orione devono perenne riconoscenza.

Li chiamò a lavorare nella sua Diocesi e affidò loro col Santuario dell’Incoronata, la Parrocchia della Madonna della Croce: li ebbe carissimi.

Mentre raccomandiamo l’Anima eletta alla misericordia del Signore, esortiamo gli amici del Santuario a voler recitare a suffragio del santo Vescovo la bellissima preghiera che egli dettò ad onore dell’Incoronata e che si legge sulle immaginette della Madonna.

La materna bontà di Maria SS. che fu stella luminosa del suo Episcopato, lo accolga benigna in Paradiso e Gli permetta di vigilare Angelo tutelare sul tanto amato Santuario dell’Incoronata.

Da “Il Redentore
Anno I N. 2 – Febbraio 1955
Periodico mensile dell’Adorazione perpetua del Monastero delle Redentoriste presso la Chiesa di S. Domenico in Foggia

(titolo a tutta pagina):
Nel 1° Anniversario della morte di S.E. Mons. Fortunato M. Farina


(articolo di fondo, non firmato)
La data del 20 febbraio ravviva un ricordo e una venerazione che il tempo non potrà spegnere dai nostri cuori: Mons. Fortunato M. Farina.

Ricordiamo la Sua pietà di uomo di orazione, che traspariva e incantava non solo nei momenti in cui compiva i riti pontificali, ma in ogni circostanza. La si respirava in tutti gli incontri con Lui; risuonava soprattutto nell’accento pacato della Sua parola, dal trono, dal pulpito, nei ritiri e nelle conversazioni spirituali. Se poi l’argomento era mariano, come capitava spesso, i Suoi occhi si illuminavano di gioia e la voce vibrava di tutto l’ardore interiore.

Ricordiamo la Sua austerità. Amò vivere in francescana povertà, mentre aveva la possibilità di circondarsi di agi. Chi lo ha conosciuto nella Sua vita privata ed intima, sa che Egli ebbe un vero culto della povertà.

Ricordiamo il bene che prodigò in trenta anni di episcopato a tutte le anime con la luce del Suo esempio e della Sua parola, con le innumerevoli istituzioni da Lui create, promosse o sostenute con munificenza inesauribile.

E ricordiamo soprattutto la Sua morte santa: i tre giorni che la Sua salma rimase scoperta nella nostra Cattedrale, il Suo volto cereo sul quale la morte non aveva cancellato ma quasi reintegrato la Sua abituale serenità sorridente, e la processione ininterrotta del popolo che passò a pregare dinanzi al Suo feretro, a baciare la Sua mano, a piangere la Sua dipartita.

Questo foglio, eco di una istituzione tra le più care al cuore del Defunto Pastore, perché più rispondente alla profonda Sua pietà sacerdotale, rievoca la data anniversaria della Sua morte con riconoscenza commossa e devota.

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Il giorno 20 corr. alle ore 10 in Cattedrale, sarà celebrata la Messa solenne di suffragio con l’intervento delle Autorità e delle Associazioni Cattoliche.

L’animo eucaristico di Mons. Farina

 

Il 20 febbraio, fa un anno dalla santa morte di Mons. Farina.
Fra i tanti ricordi che salgono al cuore pensando a Lui, il più spontaneo è quello che ce lo fa rivedere ai piedi del SS. Sacramento.

Erano ore ed ore ogni giorno che egli trascorreva nel raccoglimento della preghiera con fervore che traspariva, quasi tangibile, da tutto l’atteggiamento della sua persona. In ginocchio, sempre in ginocchio, il busto eretto; il capo lievemente chino, le palpebre socchiuse, egli pareva dimenticasse ogni cosa quando parlava col suo Gesù.

Prima della sua lunga messa egli faceva ai piedi del tabernacolo la sua lunga meditazione, e – dopo – il suo lungo ringraziamento. Egli insegnava che un Sacerdote di spirito non assegna mai meno di un’ora e mezzo alle sue grandi orazioni mattutine. Nel resto della giornata sempre ai piedi del tabernacolo, in ginocchio recitava il suo breviario, faceva la sua lettura spirituale, recitava la corona, si tratteneva per le sue lunghe visite.

Per aver tempo a tutto questo, fino a quando le sue forze fisiche glielo permisero (e fu almeno per un buon quindicennio di episcopato) si alzava ogni mattina alle cinque e mezzo, e i sacerdoti che furono suoi seminaristi in quegli anni felici, ricordano la meditazione che quasi quotidianamente Egli dettava ad essi nella cappella del Seminario, ove rimaneva poi ad ascoltar la messa prima di celebrare la sua.

Quando, a giorno già alto, usciva dalla cappella spirava da tutto il suo atteggiamento un’aria di profondo e semplice raccoglimento che faceva sentir bene com’egli portasse nell’anima tutto vivo il senso di Dio che poi trasfondeva nella sua opera pastorale, considerata ed attuata da lui come una nuova modalità della sua preghiera incessante.

Gli acciacchi della salute malferma non gli consentirono di conservare l’orario della sua levata, anzi lo costrinsero via via a levarsi, sempre più tardi. Ma le ore della sua preghiera non diminuirono mai. Egli era convinto che una Diocesi si regge dall’inginocchiatoio non meno che dallo scrittoio.
E poi la notte.

Quando era a Troia, i seminaristi lo trovavano, dopo la loro cena, quasi sempre in cappella, lì, al solito suo posto, in ginocchio – sempre in ginocchio – così raccolto e assente che potevano con tutta libertà, durante la ricreazione, fare le loro esercitazioni all’armonio (quelle detestabili tiritere da principianti che seccherebbero l’anima finanche a una fontana) senza che egli ne accusasse il minimo fastidio. Egli stesso faceva cenno di continuare quando l’apprendista cortese accennava a smettere per non disturbarlo.

Poi i ragazzi andavano a riposo, ed egli restava lì. Le luci della casa si spegnevano una dopo l’altra. Quella della cappella no. C’era il vescovo a pregare.

Quando qualche volta – tra veglia e sonno – lo si sentiva, a notte fonda, ritirarsi alla cappella, con quel suo passo lieve e quel frusciar di vesti che sfioravano appena il gran silenzio, l’anima provava la pace di una sicurezza immensa perché pareva di sentirsi sotto le ali di una invisibile e forte protezione.
A Foggia era la stessa cosa.

Anzi lì la cappella essendo più vicina al suo traffico quotidiano, era più spesso meta dei suoi fugaci incontri occasionali con Gesù. Nell’uscire e nell’entrare in casa, mai che passasse innanzi alla cappella senza fermarsi a salutare l’Ospite amato. Prima del pranzo e dopo. Nei momenti di ansia o di sconforto, di perplessità e di preoccupazione sempre. E tanto gli pareva tutto questo non solo un dovere, ma soprattutto un bisogno, che non si rendesse conto come mai di tanti che andavano e venivano in Episcopio ve ne fossero di quelli che non passavano a salutare il SS. Sacramento che pur era così a portata di mano nella cappella affacciata sul corridoio d’ingresso.

* * *

Cosa facesse, cosa dicesse quand’era in ginocchio lo sa solo il Signore. Ma se un giorno ci sarà dato di pubblicare qualche cosa di quei preziosi appunti di pietà da lui annotati nei suoi quadernetti spirituali, se si raccoglieranno almeno alcune delle sue innumerevoli lettere di direzione di anime (e chi ne possiede farebbe bene a custodirle in attesa che le si possa utilizzare) noi vedremo in quelle pagine incantevoli riflessi di una luce eucaristica eccezionale.

* * *

Mi viene spontaneo un ricordo.
In uno dei primissimi giorni di non so qual gennaio – era un giorno feriale, appena dopo pranzo – lo vidi aggirarsi solo per i corridoi del Seminario vestito in gran pompa, violaceo e cappa magna, stringendosi il lungo strascico raggomitolato contro il petto andava in cerca di un caudatario.

A quell’ora, in quel giorno, così solo…. Scendeva in Cattedrale per la sua visita al SS. Sacramento esposto per le quarant’ore. Dovetti fare un involontario moto di sorpresa per tutto quel paludamento. Ma egli rispose subito al mio pensiero:
– Il Vescovo va a un’udienza ufficiale nella reggia del Sovrano. Non vi pare che ci voglia la grande uniforme? –

Lo rivedemmo in grande “uniforme” l’anno passato, il 20 febbraio, all’udienza del Sovrano, nella sua reggia. Ricordate quanta gente intorno a lui in Cattedrale?
Ma quell’udienza non è finita ancora.

Dopo tre giorni lo chiusero nel feretro, ma il loculo non era pronto ancora. Fu dunque necessario deporlo provvisoriamente in qualche posto. E fu scelta la cappella dell’Iconavetere, ai piedi del SS. Sacramento. Prima di scendere nel sepolcro egli fece la sua ultima adorazione: otto giorni e otto notti, degno finale di una vita di adoratore.

Poi lo inumarono lì, nella sua tomba, ai piedi della statua di Sant’Alfonso, in vista del tabernacolo eucaristico e del trono della Madonna dei Sette Veli.
L’udienza del Re è divenuta perenne.
Il buon Vescovo prega ancora e sempre per noi.
In pace Christi, in osculo Mariae.

D. MARIO DE SANTIS

Testimonianza del Sac. Don Martino Pavia
sulla vita di Mons. Fortunato M. Farina


Vidi Mons. Farina per la prima volta nel giungo del 1928, quando io avevo otto anni, nel mio paese natìo di Biccari. Era morto un mio cugino, Pavia Fedele Alessandro, schiacciato da un battaglio di campana il giorno del Corpus Domini di quell’anno 1928. Per questa triste circostanza, Mons. Farina , accompagnato dal fedelissimo cameriere “don” Pasquale, qualche giorno dopo venne nella parrocchia di Biccari.

Vidi una seconda volta Mons. Farina il 6 gennaio 1930, giorno della mia Cresima, ricevuta dalle Sue mani nella chiesa parrocchiale di Biccari.

Mi allontanai dal mio paese natìo, perché andai a studiare a Messina presso i Padri Rogazionisti. Quasi al termine dei miei studi teologici, nel febbraio1945, quando ancora la seconda guerra mondiale aveva i suoi strascichi, incontrai di nuovo Mons. Farina. Essendo chierico minorista, desideravo chiedergli di essere accolto in diocesi come seminarista.

Da Biccari, a schiena di mulo, venni a Troia, e fui presentato al Vescovo dall’allora seminarista Giuseppe Meresse, che godeva le grazie di Mons. Farina.

Nello stesso anno, precisamente nel mese di novembre, fui accolto nel Seminario di Benevento. In quel tempo Mons. Farina era Prefetto degli Studi in quel Seminario. Per questo lui stesso presiedette la Commissione dei Professori per i miei esami di ammissione all’ultimo anno di Teologia. Ricordo che Mons. Farina mi presentò come suo seminarista, quasi garante della mia preparazione. Comunque gli esami mi andarono bene.

Il 24 novembre 1946, all’età di 27 anni, fui ordinato sacerdote, sempre da Mons. Farina, nella Cattedrale di Troia.

In quello stesso anno, sempre da Mons. Farina, fui chiamato nel Seminario diocesano di Troia, come prefetto disciplinare per i numerosi seminaristi, e qualche anno dopo fui incaricato di fare l’economo dello stesso Seminario.

Sono stato così per cinque anni accanto a quel Vescovo che mi aveva voluto come suo sacerdote e collaboratore.

Rimasi subito colpito dalla sua alta spiritualità e dalla sua benevolenza senza limiti.

Nel 1947 (o 1948), non ricordo bene la data, potei assistere, nella Cappella del Seminario, ad un esorcismo, fatto dal Vescovo ad una povera donna, posseduta da spiriti maligni. Nella interrogazione del Vescovo, la povera malcapitata ebbe a rispondere: “Sono una legione”. Alla fine la poverina, stramazzando a terra davanti all’altare, rimase quasi annientata. Il terrore fu grande tra tutti noi che assistevamo sbalorditi!

A detta di “don” Pasquale, il fedele cameriere, Mons. Farina passava le notti in preghiera: andava a letto a tarda notte e perciò si alzava molto tardi e celebrava generalmente pure tardi. Ho sentito anche da varie fonti che di notte non solo pregava, ma scriveva la sua corrispondenza e il suo fedele diario giornaliero.

Facendo l’economo del Seminario, dovevo spesso andare dal Vescovo, il quale mi dava le sue pingui offerte per la spesa di ogni giorno, essendo egli l’unico finanziatore. Quando arrivavo, “don” Pasquale quasi sempre mi diceva: “Don Martino, devi avere pazienza, perché il Vescovo non ha dormito questa notte!” Mi toccava aspettare non poco. Il Vescovo, dopo aver celebrato la S. Messa, verso le 9,30 mi riceveva, dandomi tante e tante somme di denaro con assegni suoi personali o dei suoi familiari.

Una volta in particolare, con un autotreno, dovetti andare a comprare legna a Ruvo di Puglia. Avevo viaggiato la sera, la notte e tutto il giorno seguente. Erano circa le quattro pomeridiane e, sapendo che io dalla sera avanti ero rimasto digiuno, affamato ed assetato, Egli mi permise, in via del tutto eccezionale, di celebrare la S. Messa di pomeriggio. Questo è stato per me un segno tangibile del suo cuore buono e paterno, perché a quel tempo era proibita la celebrazione della S. Messa al pomeriggio.

Mons. Farina era un uomo di fede profonda e senza limiti, perché dava consigli – e ne dava sempre a tutti – badando sempre e solo alla maggior gloria di Dio e per suo amore. Per la sua grande fede, che viveva in modo profondo, aveva sempre come solo obiettivo Dio. Dimostrò ciò durante la sua grande malattia dell’aprile 1950.

In questa occasione ho avuto la grazia di assisterlo durante tutta una notte. (Nel suo diario, come è riferito nella biografia scritta da Mons. De Santis, il Vescovo parla di me, che gli sono stato a fianco tutta la notte). Egli, già agonizzante, quasi risvegliandosi come da un sopore (in precedenza aveva subito un salasso per opera di un illustre Primario medico di Foggia), recitava il salmo “Laudate, pueri, Dominum…”. Durante tutta la notte lo vidi, come sempre, completamente abbandonato in Dio, con una grande serenità ed una grande pace, pieno di amore nel fare anche allora la volontà del Padre. Notai anche in lui tanto riserbo e tanta dignità, quando, ripresosi al mattino, dovette scendere dal letto per necessità fisiologica.

Nella predicazione ai fedeli, e in particolare nel fare la meditazione ai seminaristi, era semplice, chiaro e ricco di profondità dottrinale.

Era “marianista” per eccellenza: viveva sempre in Maria e con Maria. In tutte le problematiche riusciva, tramite la mediazione materna di Maria, ad elevare in Dio i suoi ascoltatori. In modo particolare consigliava sempre di abbandonarsi in tutto completamente alla Vergine Maria, come madre dolcissima.

Ho sentito da tanti confratelli, testimoni oculari di quel tempo, che Mons. Farina, quando venne a Troia come Vescovo, edificò tutti, perché scendeva ogni giorno nel refettorio del Seminario per mangiare con i seminaristi e ogni domenica andava a confessare in Cattedrale.

Pur essendo di nobile casato e, quindi di famiglia ricca e possidente, il suo stile comportamentale era improntato a grande semplicità e ad estrema povertà.

Era mite per natura, credo, ed era sempre affabile, pronto al colloquio. Era veramente il Buon Pastore, buono e sempre paterno con tutti. Ma dinanzi all’indisciplina e al cattivo esempio interveniva con grande energia, mostrando la forza della sua autorità.

Da quel che ho sempre sentito, Mons. Farina ha dovuto coltivare uno stile di innocenza e illibatezza, tanto che, quando qualcuno del clero ne commetteva di brutte, rimaneva esterrefatto e contrariato al massimo.

Ritengo che sia stata per me una grande grazia quella di essere stato molto vicino al Vescovo per i miei primi anni di sacerdozio.

Foggia, 8 dicembre 1999 – Solennità dell’Immacolata Concezione.

(Firmato): Don Martino Pavia

Arcidiocesi di Foggia-Bovino
Visto per l’autenticità della firma
di Don Martino Pavia
Foggia, 8 dicembre 1999
Il V. Cancelliere Arcivescovile
Firmato: Don Pasquale Martino

 

Testimonianza dell’On. Grazia Giuntoli
Siponto, 27 – XI – 1980


Natale 1940
La Vigilia di Natale ebbi la comunicazione del Ministero della P.I. di essere vincitrice di concorso italiano e storia per gli Istituti Tecnici e Magistrali con la preghiera di scegliere la Sede nell’elenco delle 14 cattedre messe a concorso. È inutile dire che provai una grande gioia, turbata dalla considerazione che, dato gli eventi bellici, dovevo andare a Modena per andare a vivere con mio fratello.

Volli comunicare la notizia al mio Vescovo, Mons. Farina, al quale confidavo tutte le mie decisioni spirituali e di studio. Mi ricevette subito con la sua notoria bontà che alcune volte aveva l’aspetto materno. Gli comunicai subito, con il mio carattere vulcanico, la gioia di buttare il distintivo fascista e la saariana nel Secchia che scorre a Modena.

Mi guardò stupefatto e con aspetto severo mi disse: “Le battaglie non si vincono vivendo fuori della mischia, ma nell’interno”.
Rimasi perplessa. Sapevo bene che non era fascista e non mi sapevo spiegare il significato di quelle parole. Continuai a parlargli dei miei propositi di apostolato e sorrideva accettando di buon grado la mia speranza che dopo sarei ritornata a Foggia ad insegnare ed a rifare le settimane della giovane.

1943 –
Gli scrissi da presidente diocesana di G.F. di Azione Cattolica di Modena narrandogli la difficile avventura superata da me con le mie 40 propagandiste, eroiche e tenaci nel liberare otto mila giovani che aspettavano per partire per i campi di concentramento della Germania.
Mi rispose immediatamente benedicendomi ed assicurandomi che avrebbe pregato molto per me e per mio fratello.
Fu l’ultima lettera che ricevetti e fu la mia sola compagna di viaggio e di dolorose peripezie in due anni.

1945 –
il 29 settembre riuscimmo a raggiungere casa a Troia
Appena mi fu possibile andai a salutarlo e con molto interesse ascoltò la narrazione dei disagi e pericoli corsi dopo che fummo fatti prigionieri dei tedeschi. Alla fine disse: “Tutto coopera per il bene. Il Signore sa quello che fa”. Questa è la seconda frase che mi rimase oscura e per questa ragione non l’ho dimenticata.

Ed ecco arrivare gli inviti dai dirigenti della Democrazia Cristiana di entrare con entusiasmo nelle loro file.

Mi rifiutai energicamente affermando che fuori dell’Azione Cattolica non avrei dato nemmeno un quarto d’ora della mia vita. Ed eccoci al 1946 bisognava mandare i nostri rappresentanti per formulare la costituzione.
Eccoci tutti impegnati per far votare per i nostri uomini colti, saggi ed onesti.

Quale occasione più bella di questa di parlarne non più nelle sagrestie, ma in piazza?…

Non so cosa narravamo di efficace, ma è certo che quella formazione cristiana, a tutta prova, ricevuta nell’Azione Cattolica, divenne l’arma capace di convincere anche i più incerti.

Finita la campagna elettorale ricominciammo il nostro lavoro, con le settimane sociali. Ritornai dal mio Vescovo, molto triste perché dovevo raggiungere la mia cattedra a Modena. Con grande meraviglia mi rispose deciso nelle sue affermazioni: “Questa volta non lascerete la nostra provincia, adopereremo tutti i mezzi per ottenere il trasferimento a Foggia. Se il Signore vi ha concesso tante grazie attraverso la sofferenza è necessario che rispondiate con generosità alla sua chiamata. Voi laici dovete essere la nostra longa manu”. Mi vidi più piccola di un granello di arena di fronte a questo programma e iniziai le pratiche per ottenere il trasferimento.

Ed ecco il 1948
Mi impegnarono nel febbraio per una settimana sociale a S. Giovanni Rotondo.

La seguii con molto interesse quando stavo per chiuderla venne da me il Parroco con un giornale che portava l’elenco dei candidati al Parlamento e c’era anche il mio nome. In preda a smarrimento corsi da Mons. Farina il quale mi accolse con un largo sorriso. Non finii di dire: “Eccellenza, ho l’aritmia cardiaca per i lunghi digiuni, nel campo di concentramento nel Brennero, ove ci hanno confinato i tedeschi, ed i miei sono contrari. Mia madre e mio fratello Giuseppe non mi faranno più vivere”. Iniziò il suo discorso demolendo la mia paura di essere eletta e disse: “Di che cosa vi preoccupate? State sicura che non sarete eletta, siete entrata quale riempitivo della lista. Ed ora vorrei sapere se siete convinta che il Signore vi ha preparata da alcuni anni per questo compito politico, che ha il solo scopo di ricostruire materialmente questa Patria scalza e lacera, di aiutare i propri fratelli a ricomporre le famiglie rovinate dalla guerra ed a consolare le innumerevoli famiglie in lutto per la perdita dei loro cari. Ubbidite in nome di Dio, presentate i documenti necessari ed immettetevi nella battaglia con molta fede, affidandovi alla Madonna”. Mi dette la benedizione ed affrontai le prime difficoltà in famiglia, ove erano tutti ostili.

Mercoledì santo. Prima del 18 aprile 1948 mi fu assegnato dalla segreteria prov. della D.C. il comizio a S. Giovanni Rotondo ed a Foggia.
Preferii salutare P. Pio prima di iniziare il 1°= comizio. Mi ricevette con grande bontà e mi raccomandò di mettermi al collo una medaglina della Madonna miracolosa, che egli aveva fin dal noviziato. Presi la medaglia e corsi in piazza, avendo solamente mezz’ora a disposizione. Finito il comizio andai in fretta a Foggia ed alla fine del 2°= comizio andai da Mons. Farina, al quale manifestai la mia meraviglia per le insistenze di P. Pio per la preghiera e perché mi raccomandassi caldamente alla Madonna.

È sempre più vero che i santi hanno dei collegamenti. Infatti Mons. Farina insistette nel concetto di parlare, di agire sempre alla presenza di Dio.
Il giovedì santo andai ad aprire la campagna elettorale a Gravina, ove fui attentata da un propagandista comunista che riuscii a salvare a stento dalla forza pubblica, presentandolo quale cugino. La stessa sera aprii la campagna elettorale ad Andria e mercè l’eroismo dei Padri Salesiani che avevano lavorato intensamente si riuscì a suscitare entusiasmo politico tra il popolo.
La sera dopo fui avvelenata a Trani con un brodo con solfato di rame e con una lavanda gastrica mi salvai. Mons. Farina telefonò a casa e dopo poco andai in Episcopio. Appena mi vide con le mani giunte disse: “ Quando ho pregato per voi temevo per la vostra salute… non abbiate ulteriori preoccupazioni perché avete superato tutto. (infatti non ho mai più sofferto di stomaco). Ringraziate la Madonna e ricordate sempre che chi combatte deve rischiare”.

Il giorno dopo l’attivista comunista (che mi voleva uccidere a Gravina) consegnò la tessera e scomparve dalla circolazione.

18 aprile 1948
Ero a letto lunedì 19 quando venne a Troia il V. Prefetto per annunciarmi che ero stata eletta deputata al Parlamento.
Ebbi un momento di smarrimento vedendomi incapace di varcare la soglia dell’aula di Montecitorio. Piansi e corsi da Mamma Farina.

Era contento, felice per aver letto che molti venuti dall’Azione Cattolica eravamo arrivati a legiferare. E qui cominciarono i suoi avvertimenti: “Se per il passato i cattolici sono stati lontani dalla politica, hanno seriamente sbagliato. Dobbiamo essere presenti dove si formulano leggi che debbono dare alla nostra Patria giustizia e serenità”.

Testimonianza della Prof. Anna Gerbaldi, piccola Ancella del S. Cuore.

MONS. FORTUNATO M. FARINA e la Pia Unione delle
“ PICCOLE ANCELLE DEL SACRO CUORE”
e Aggregate di SALERNO.

CENNI SULLA PIA UNIONE

Il 28 settembre 1890, con la benedizione del S. padre Leone XIII e l’Autorizzazione dell’Arcivescovo Mons. Valerio Laspro, venne canonicamente eretta in Salerno la Pia Unione delle “Piccole Ancelle del Sacro Cuore” e aggregate, dal direttore generale Can. Luigi Caruso e con l’intervento della Fondatrice e Madre Generale la Ven. Caterina Volpicelli.

Nel 1894 la Madre Volpicelli morì senza vedere realizzato il suo desiderio di fondare a Salerno una casa delle Ancelle, cioè il primo ramo della sua geniale istituzione, la quale si compone di tre cerchi concentrici: il primo formato da religiose che vivono in comunità, chiamate Ancelle del Sacro Cuore; il secondo da vergini consacrate, che pur restando in famiglia, vivono a modo di religiose e sono le Piccole Ancelle; il terzo è formato di coniugate o vedove, ferventi zelatrici del Sacro Cuore e sono le Aggregate. Per la regola una sola dovrebbe essere la Superiora della triplice famiglia, la Superiora delle Ancelle, ma a Salerno fu invece eletta a superiora della Piccole Ancelle, una di loro. Le Generali succedute alla Fondatrice seguirono dalla Casa madre il comportamento e lo sviluppo della casa di Salerno e costatarono che vi si viveva in pieno lo spirito delle Regole. I rapporti tra la nostra Pia Unione e le Superire generali si intensificarono quando fu eletta nell’adunanza dell’aprile 1903, come superiora, la signorina Margherita Festa e come assistente la sorella Adele. La madre Margherita Festa sarà eletta nelle successive elezioni e quindi per le sue grandi virtù rimarrà a capo della pia unione di Salerno, fino alla morte, avvenuta la vigilia dell’Annunciazione del 1965. La sorella Adele, eletta in una successiva riunione, reggerà l’associazione fino alla morte, il 30 gennaio 1977. Entrambe erano figlie spirituali del Can. Michele Ietti, biografo della ven. Caterina Volpicelli, profondo conoscitore dello spirito della Pia Unione e apostolo ardente della devozione del Sacro Cuore. Il suo motto era: Lavoriamo molto, molto per Gesù, ma sempre con Gesù.

Nel pensiero della Fondatrice le Piccole Ancelle dovevano essere anime votate all’amore, alla riparazione e all’apostolato. Esse dovevano ritenersi “come le ausiliatrici più operose del Clero”. Lo raccomandò, in una sua visita alle Piccole Ancelle di Salerno, il cofondatore Can. Caruso, dicendo: “Là dove non penetra il sacerdote deve entrare la piccola ancella” e ricordò che “ non c’è azione efficace quando non c’è sacrificio e dolore”. Intorno alla signorina Margherita Festa si strinse un gruppo di giovani professe che la fervente superiora cercava di plasmare secondo i desideri del Sacro Cuore e di allenare alla disponibilità piena per l’apostolato, pronte ad ogni opera di zelo e sempre le prime a rispondere con slancio e devozione alle iniziative parrocchiali e diocesane, specialmente all’insegnamento della dottrina cristiana. Il giornale diocesano “Il Buon Senso” diretto da Mons. Arturo Capone, a metà maggio del 1904, pubblicava un articolo della piccola ancella Adele Festa, che conteneva un caldo invito per la celebrazione del Mese del S. Cuore in tutte le parrocchie, le comunità religiose, gli oratori, le scuole, le famiglie. E la sua parola insinuante, rispettosa e insieme ardimentosa, era rivolta ai parroci; ai confessori, ai predicatori, ai direttori dell’Apostolato della Preghiera, ai superiori degli ordini religiosi. L’ardente apostola del Sacro Cuore ancora più volte negli anni successivi, rinnoverà l’appello sullo stesso giornale e si vide diffuso in città e diocesi del S. Cuore, che prima era quasi sconosciuto.

ORDINAZIONE SACERDOTALE DI MONS. FARINA

IL “Buon Senso” del 1° ottobre 1904, comunica una notizia che avrebbe segnato un momento di grazia particolare non solo per la chiesa salernitana, ma anche per la nostra piccola Associazione. La trascriviamo:
“Il 18 settembre si è compiuta l’ordinazione sacerdotale di don Fortunato Farina, vanto e decoro di Baronissi non solo per l’illustre famiglia da cui discende, ma anche e più per la sua pietà e dottrina”.

Il giovane levita dovette ben presto conoscere la nostra associazione. Le piccole ancelle (e parlando di esse intenderemo anche le aggregate) erano impegnate tutte nell’insegnamento della dottrina cristiana, nell’apostolato per il precetto pasquale nelle scuole e nelle fabbriche, nelle pratiche devozionali richieste dal S. Cuore e nella collaborazione alle opere missionarie. È vero che esse lavoravano nel nascondimento, come prescrive la Regola e non apparivano mai come piccole ancelle, ma come Figlie di Maria, Zelatrici del S. Cuore, Terziarie francescane, ma lo spirito stesso con cui compivano le opere, così squisitamente religioso, non potè sfuggire ad un sacerdote della sensibilità spirituale di don Fortunato Farina, benché fosse solo all’inizio del suo ministero. Dal canto loro le signorine Festa, dotate anch’esse di un intuito particolare nel riconoscere gli autentici carismi delle anime davvero del Signore, compresero il gran bene che avrebbe potuto venire all’associazione dalla parola illuminata dell’autentico ministro di Dio. Se ne confermarono dopo averlo ascoltato nel primo corso di predicazione e da allora tutte le volte che fu possibile preferirono chiamare lui per i tridui e le settimane di esercizi spirituali prescritti dalle nostre regole. Abbiamo riletto, per questo piccolo lavoro, i verbali delle adunanze mensili tenute dalla superiora alle sue figliuole, regolarmente dal 1903 e che sono stati quasi tutti conservati. Abbiamo trovato ampi riepiloghi delle conferenze fatte da Mons. Farina ed è molto interessante notare – e lo faremo più volte – l’armonica sintonia tra le abituali istruzioni della nostra madre e le meditazioni del giovine predicatore. Si vede che aveva approfondite le nostre regole ben compreso il loro spirito, che corrispondeva alla sua stessa formazione e impostazione ascetica.

Nel dicembre 1906, per la prima volta, fu lui a svolgere il triduo di preparazione alla recezione di nuovi membri, cerimonia solenne che si svolse il giorno 12. La segretaria, che era la signorina Adele Festa, diligentemente annotò come nei tre giorni di predicazione il sacerdote “aveva aperto alle presenti la mente e il cuore ad orizzonti di luce e di pace”. Riformare, conformare, trasformare, furono gli argomenti delle tre meditazioni e seppe racchiudere e spiegare in esse i tre capitoli principali delle nostre regole. Nel giorno della recezione egli fece precedere all’imposizione dello scapolare del Sacro Cuore alle Novizie e della croce d’argento alle nuove professe, poche parole, ma “esse – prosegue la segretaria – furono così vibrate, forti ed incisive che tutte le scolpirono nel cuore, per segnare così l’inizio di una vita nuova, modellata sugli esempi del divin Cuore. Egli disse che una piccola ancella deve non solo compiere l’opera della personale perfezione, ma anche quella di una incessante riparazione e di un continuo apostolato. Perfezione fino alla trasformazione, riparazione fino alla consumazione, apostolato fino al sacrificio. In queste parole aveva compendiato tutta la vita di una piccola ancella”. L’incidenza di questa predicazione così aderente alla spiritualità dell’associazione, veniva sottolineata dalla superiora nell’adunanza del gennaio 1907.

Nel settembre del 1907 per la rinnovazione annuale delle Promesse religiose, di nuovo predicò per tre giorni il sac. D. Fortunato Farina. Egli, il primo giorno parlò della necessità di salvarsi, ma di salvarsi da sante. Ma tale santità non si può raggiungere che con l’adempimento perfetto della volontà di Dio, la quale oltre che dai divini comandamenti, ci viene espressa dalle s. Regole. E come esame pratico, da fare ai piedi della Madonna, assegnò i tre capitoli che riguardano l’obbedienza. Nel secondo giorno parlò dello spirito delle regole che è fondato tutto sulla carità e sullo zelo. E per questo dette molti consigli, specialmente per l’operosità esteriore e assegnò vari punti di esame. Nel terzo giorno trattò dell’ spirito di preghiera da cui si deve essere animata una piccola ancella, anche fra le occupazioni più incessanti dell’apostolato, e questo spirito non si acquista meglio che con l’esercizio continuo della divina amabile presenza del nostro Dio, tutto amore. Nel giorno poi della rinnovazione delle promesse, prima di iniziare la celebrazione della santa messa, volle ricordare alle associate lo spirito di immolazione che deve essere proprio di una piccola ancella e si acquista con lo spirito pratico della s. umiltà, l’unica virtù veramente fondamentale che ci rende gradite agli occhi di Dio.

Adoratrici della volontà di Dio, anime di preghiera, viventi sempre alla divina presenza, sinceramente e serenamente umili nel riconoscimento del proprio nulla e nell’amore alla propria abiezione… quante volte Madre Margherita ci ribadiva nelle sue istruzioni questi principi basilari di perfezione, che con tanta convinzione aveva indicato e raccomandato quell’esile maestra di spirito di appena 26 anni!

Nell’ottobre 1909 fu ancora lui a preparare per la nuova recezione i membri della pia unione. Essi per la prima volta, nel maggio di quell’anno avevano potuto avere un corso di esercizi spirituali di ben otto giorni, predicati dal padre Liquorino Emilio Iacovetti “fervente di amore verso Dio”. Da allora quasi ininterrottamente le nostre superiore si adoperarono perché non mancasse la grazia insigne di una settimana di esercizi, con la predicazione di santi e dotti sacerdoti, a preferenza religiosi. (Basta ricordare gli esercizi predicati dal Servo di Dio don Giustino Russolillo).

Per il 1910 il padre invitato fu ancora il sac. Fortunato Farina. Egli seguì il metodo classico di s. Ignazio e la diligente segretaria ne ricordò l’andamento e i frutti di bene ricevuti.
Da qualche anno don Fortunato, vero apostolo della gioventù, stava organizzando il Circolo Giovanile Cattolico Salernitano e molti giovani, specialmente studenti, che poi divennero valorosi professionisti e zelanti dirigenti di azione cattolica, si impegnavano generosamente nelle iniziative diocesane, la madre Margherita Festa, sensibilissima alla riconoscenza, nella prima adunanza, tra le intenzioni raccomandate mise in prima linea di sostenere con la preghiera le opere a vantaggio della gioventù specialmente maschile e assegnò alle piccole ancelle l’incarico di tenere in ordine e pulizia la sede del Circolo di don Fortunato.

PARTECIPAZIONE DI DON FORTUNATO FARINA ad una indimenticabile giornata di spirituale letizia della piccola famiglia del Sacro Cuore, l’Arcivescovo Mons. Valerio Laspro, che 23 anni prima aveva autorizzato l’erezione della Pia Unione del S. Cuore, in tutto quel tempo aveva avuti tanti motivi per compiacersi del suo comportamento e del suo apostolato. Perciò di buon grado nella festa del S. Cuore del 1913, concesse il Breve di Lode con cui si riconosceva canonicamente nell’Archidiocesi la Pia Unione delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore “con l’augurio e il voto massimo che sia ovunque riconosciuta e propagata per la maggior gloria ed onore del Sacro Cuore, per il bene della società e salvezza delle anime”. Nella prima parte del Breve il Presule così motivava il suo atto :”In tanti anni la vita privata e pubblica delle ascritte è stata di edificazione delle anime. Esse nelle opere che compiono rivelano lo spirito di Gesù Cristo, con cui vivono e da cui sono animate e di santo zelo accese … e non sono pochi i frutti benefici che ne derivano alla società civile e religiose delle molteplici opere di pietà”. Partecipò don Fortunato Farina e con la sua parola. La segretaria fa notare che “Egli con la parola veramente santa ci faceva apprezzare la grandezza del dono ricevuto e ci incitava a camminare sempre più generosamente nella via della nostra santificazione e dell’apostolato , duplice fine della nostra vocazione”.

Gli esercizi spirituali del 1914 furono di nuovo affidati a don Fortunato. Leggiamo nel verbale: “Il padre, animato del vero spirito del Signore, ci parlò della più alta perfezione, dettandoci mezzi particolari e pratici per poterla raggiungere. Egli insistette soprattutto sull’umiltà, virtù fondamentale e madre delle altre virtù, e nell’osservanza esatta delle Regole, in cui consiste la vera santità di un’anima religiosa”.

APOSTOLATO TRA I MILITARI. Nella primavera del 1915 anche l’Italia era entrata in guerra e si iniziò quindi in tutto il paese la mobilitazione generale. A Salerno fu subito organizzata l’assistenza religiosa ai militari richiamati e fu affidata alla Pia Unione del S. Cuore l’incarico di far ricevere ai soldati i santi sacramenti, prima di partire, e furono moltissimi, per il fronte. La superiora ne diede comunicazione alle sue figlie invitandole ad essere generose partecipandovi con tutto l’ardore possibile con l’azione, con la parola, con la preghiera e il sacrificio. E il Signore si compiacque benedire il loro zelo così che nell’adunanza successiva, potette ringraziare commossa il S. Cuore dell’adesione plebiscitaria dei soldati in partenza. Don Fortunato collaborò, come vedremo.

MONS, CARLO GREGORIO M. GRASSO
ARCIVESCOVO DI SALERNO

Intanto proprio in quei giorni il nuovo Arcivescovo Mons. Grasso, già abate di Montevergine, aveva preso possesso della cattedra di S. Bonosio, essendo volato al Cielo nel novembre 1914 Mons. Laspro. Fu subito costituito ufficialmente il Comitato per l’assistenza religiosa ai militari e l’assistenza alle famiglie dei richiamati. Fra gli ecclesiastici designati c’era anche don Fortunato Farina. Le Piccole Ancelle, spronate dalla superiora non esitavano a visitare le caserme e i locali dove erano accampati i soldati, cercando di disporre a ricevere la visita del sacerdote per la preparazione ai sacramenti. Molti furono i ministri di Dio impegnati in questo apostolato e fra i più zelanti don Salvatore Torre e don Fortunato farina. Preziose testimonianze di questo periodo così drammatico e insieme eroico della nostra storia, nell’ambito della nostra diocesi, furono rilasciate dalla segretaria Adele Festa al canonico Donato Masi, che stava scrivendo la “vita” di Mons. Grasso (morto nel 1929), e che fu pubblicata nel 1954.

Questo volume di 600 pagine, mentre illustra la luminosa figura del santo Presule, offre una miniera di notizie e di documenti che si riferiscono principalmente allo zelante Pastore, ma coinvolgono anche molti suoi collaboratori nelle molteplici opere di apostolato, nonché i numerosi beneficiari della sua squisita paternità e della sua sapiente direzione spirituale, della sua chiara e sapiente predicazione. Per una gratuita predilezione divina alle ascritte alla pia unione del S. Cuore furono privilegiate di una speciale benevolenza di Mons. Grasso. Egli spesso visitava l’associazione, tenne prediche ed istruzioni, scelse anche tra loro le prime dirigenti e propagandiste per le associazioni femminili di azione cattolica, affidò ad alcune di loro delicate mansioni di carità e ne incrementò la famiglia religiosa indirizzandovi alcune sue figlie spirituali. Più volte nel volume di Don Donato Masi troviamo attestazioni di riconoscenza di anime formate dall’arcivescovo. Mons. Grasso aveva trovato un buon numero di sacerdoti zelanti; tra di esse uno dei prediletti, vorremmo dire come Giovanni per il divin Maestro, fu don Fortunato Farina. Nell’introduzione alla “vita” l’autore ne fece esplicita mansione: non posso esimere, egli dice, dall’elevare un devoto pensiero all’indimenticabile e santa figura di Mons. Fortunato M. Farina, recentemente scomparso, il quale fu del compianto Presule figliuolo prediletto, erede, esecutore testamentario, custode delle sue carte.

Torniamo ora all’apostolato militare. Esso continuò per tutto il periodo della guerra e anche qualche anno, successivo. La signorina Adele, nel rievocare le consolazioni spirituali provate durante il compimento di quest’opera così benefica, narrò una volta un episodio di delicata tenerezza sacerdotale. Fra le giovani reclute che, invitate da ragazzini che stavano sulla strada davanti alla chiesa di S. Giorgio, entravano nel tempio dove trovavano pronte le piccole ancelle che le indirizzavano ai sacerdoti disponibili per prepararle e confessarle, capitò un giorno un soldatino proveniente da un paesello di provincia. Egli si confessò con don Fortunato. Appena terminata la confessione ritornò difilato al banco, dietro il quale le consorelle distribuivano scapolari, medaglie e libretti di preghiere, e tutto commosso domandò: Chi è quel sacerdote che mi ha confessato? Egli dopo avermi dato l’assoluzione, per incoraggiarmi mi ha baciato in fronte e mi ha detto: questo bacio te lo da tua madre.

PER IL TEMPIO VOTIVO DEL SACRO CUORE A SALERNO

Come voto per ottenere la Pace, l’arcivescovo promise al Sacro Cuore che avrebbe eretto in suo onore un tempio. Per reperire i fondi, si formò un comitato di cui facevano parte le signorine Festa. La madre Margherita teneva annotate tutte le offerte con grande accuratezza. Tutta l’associazione venne impegnata in varie iniziative: raccolta e vendita di indumenti usati, confezione e distribuzione di un calendario salvadanaio del S. Cuore. Quest’opera durò molti anni e in dicembre le nostre consorelle visitavano tutte le famiglie per aprire i calendari e raccogliere le monete versate durante l’anno, ricordare le pratiche della devozione al S. Cuore e lasciare dei volantini.

Appena fu possibile si acquistò u vasto suolo e vennero riattati alcuni locali di antica osteria, in Pazza Ferrovia, per aprire un primo oratorio ove si potesse celebrare la S. Messa. A proposito della benedizione di questa chiesetta, il can. Masi riporta degli interessanti particolari datagli dal can. Giovanni Gargano, direttore diocesano delle Piccole Ancelle e che con tanta umiltà e disponibilità, confezionava i calendari – salvadanaio. Ecco le sue parole:IL 27 Giugno 1919, festa del S. Cuore, Mons. Grasso benedisse la cappella provvisorio ove ogni anno pellegrinavano le parrocchie della città, nella medesima solennità. Egli celebrò per i caduti e nel pomeriggio portò il santissimo Sacramento in processione. Al ritorno, prima di entrare in chiesa, don Fortunato fa una tribuna improvvisata, sciolse l’inno di riconoscenza e d’amore a Gesù e rievocò la liberazione di Salerno dalla flotta turca, che in quei giorni si celebrava, per l’intercessione di S. Matteo e dei Martiri salernitani Fortunato, Gaio e Ante, che nei pressi della cappella, avevano dato la vita per il Signore.

Nella prima adunanza che si tenne madre Margherita invitò a ringraziare la divina bontà che aveva concesso alla pia unione la grazia di collaborare largamente alla erezione della cappella e insieme comunicava che, contro ogni timore, si sarebbero tenuti gli esercizi spirituali nel maggio e li avrebbe anche quell’anno don Fortunato, che vincendo ogni difficoltà aveva accettato.

Dobbiamo tornare indietro di un anno per parlare del corso di esercizi di fine aprile 1918, anche per rilevare la concordanza tra la predicazione di don Fortunato e le esortazioni materne della nostra superiora. Il predicatore esortava caldamente ad amare soprattutto Gesù Sacramentato. Prostriamoci spesso, egli diceva, ai suoi piedi e quando non lo possiamo realmente, facciamogli visite spirituali, in casa, ovunque ci troviamo, portandoci con il pensiero alla più vicina chiesa. Gesù deve essere la calamita dei nostri cuori. E più avanti :Abbiamo le forme esterne e andiamo a Gesù con vero amore. La nostra vita deve essere un continuo sacrificio di tutte noi stesse a Lui e tutto dobbiamo fare per amore. E per usare un linguaggio ora di moda, dall’amore verticale egli passava a quello orizzontale, che del primo è logico corollario e quindi esortava: Chiediamogli e diamogli anime, di cui ha sete e avviciniamole a Lui, con la preghiera intensa, fervorosa, con il sacrificio intimo, con l’immolazione continua; facciamo che pure esse si elevino dalle bassezze, dalle miserie di questa terra, per godere l’anticipato paradiso, che Gesù darà in premio alle anime fedeli al suo amore. Questa fedeltà si dimostra anche con l’imitazione della vita di Gesù. Vita di lavoro intenso, costante, alacre, ordinato dal dovere e dall’obbedienza alla sua santa volontà.

Questo sacerdote secolare, dallo spirito di vero religioso, si fermava a lungo sulle necessità di osservare la Regola. “E ciò che forma la nostra vita, e ciò che più di tutto vi farà, perfette, sante”. E aggiungeva : quante opere buone vengono distrutte perché fatte senza merito dell’ubbidienza e quante altre, le più vili, le più indifferenti sarebbero arricchite di meriti con essa. Per portarci alla convinzione di questa grande verità, diceva: Voce dei superori è voce di Dio e la Regola forma tutto il compendio della nostra vita spirituale, la chiave della santificazione. Spiegava poichè l’obbedienza religiosa è resa facile dalla vita di unione con Dio e l’apostolato diventa fecondo se è fondato sulla preghiera e l’obbedienza, con il sacrificio. Quante opere buone, diceva anche, non danno quel frutto che dovevano, per mancanza di spirito di orazione. E quindi precisava: Non bisogna credere che Dio voglia da noi opere strepitose; hanno invece per Lui maggior merito quelle piccole opere giornaliere, di cui ci dà occasione e che fatte con vero amore, con docilità, con coraggio e fermezza ci conducono al nostro ideale, ci rendono care a Dio. La segretaria che aveva steso il lungo verbale, fermava sul registro il sentimento provato da tutte le consorelle: Le sue parole scesero come rugiada vivificatrice nei nostri cuori, sollevandoli in alto, in cerca di Dio solo!

Degli esercizi predicati nel 1919 non è stato riportato il contenuto. Si registra solo la grazia di averli avuti.

DON FORTUNATO FARINA PARROCO
E LE PICCOLE ANCELLE

Don Fortunato potette anche per esperienza diretta conoscere lo spirito con cui lavorarono le piccole ancelle, specialmente da quando fu, nel 1916, chiamato a reggere, quale economo curato, la parrocchia di S. Agostino in Salerno. Il “Buon Senso” del 13 Luglio, dandone la notizia così commentava: “Chi conosce la pietà e lo zelo di questa perla di sacerdote… non può non congratularsi con Mons. Arcivescovo per la scelta ben fatta, e non può non aspettarsi grandi cose per il bene di questa chiesa. Al prof. Farina noi presentiamo i nostri auguri e le nostre congratulazioni.”

Alla parrocchia di S. Agostino appartenevano parecchie piccole ancelle e aggregate e il neo investito potette subito giovarsi della loro filiale e generosa collaborazione e della loro esperienza di antica data, specialmente nell’insegnamento catechistico. E aveva potuto apprezzare queste doti anche per i contatti che aveva con altri parroci, per es. della SS. Annunziata, di cui era parroco don Luigi Fanchiotti, che aveva organizzato un folto gruppo di zelatrici del S. Cuore. Molte di esse, delle quali due sorelle dello stesso parroco, appartenevano alla pia unione, prestavano la loro opera, specialmente per il catechismo e la preparazione alla prima comunione. Più volte il direttore del settimanale diocesano aveva dato l’entusiastica relazione delle funzioni svolte in quella chiesa in onore del S. Cuore. Nel Numero del 13 luglio 1916, dopo aver riferito dello svolgimento delle funzioni per il mese del S. Cuore, precisa che dal 7al 10 giugno nel pomeriggio il rev. Don Fortunato Farina aveva tenuto splendide conferenze alle associate zelatrici…

Sono le ultime notizie che il “Buon Senso” ci dà, perché questo vivace organo diocesano poche settimane dopo cessò le sue pubblicazioni. Fortunatamente abbiamo potuto attingere altre notizie della vita diocesana, dal volume più volte citato del Can. Teologo Masi, il quale, figlio affettuoso di Mons. Grasso, si era rivolto per la sua opera a tutti quelli che erano stati più vicino al Presule, di cui voleva scrivere la vita. Quando si rivolse a Mons. Farina, nel 1953, ne ricevette una entusiastica, filiale adesione, che il canonico definisce preziosissima.

Mons. Grasso e Mons. Farina si elogiano a vicenda. L’arcivescovo nel dare comunicazione al clero, nell’agosto 1919, del tanto desiderato trasferimento del seminario da Loreto di Montevergine, (dove era stato ospitato nel periodo della guerra, perché trasformato in ospedale militare il palazzo del Seminario) a Salerno, scriveva: Purtroppo non potremo più avvalerci quale direzione spirituale ai seminaristi, della sapiente opera dell’Ecc.mo Mons. Farina, eletto e consacrato vescovo di Troia. Egli che fu vero tesoro per l’educazione della gioventù avviata allo stato ecclesiastico, lascia in mezzo a noi ricordi che gli meritano, riconoscenza perenne. Da parte sua Mons. Farina si prefisse come modello della sua attività pastorale l’arcivescovo di Salerno, per cui, come egli stesso afferma, durante la sua lunga vita episcopale “tante volte, in questa o, quella occasione, domandava: Come avrebbe agito Mons. Grasso? Ora molte delle opere ricordate nel lungo memoriale di Mons. Farina, molte si riferiscono alle piccole ancelle o aggregate. Fra l’altro egli esalta la generosità con cui Mons. Grasso incoraggiava le vocazioni ecclesiastiche e religiose (quante sue penitenti furono avviate alla pia unione); l’organizzazione dell’insegnamento catechistico (tutte le consorelle erano in questo impegnate); il forte impulso all’Azione Cattolica (molte dirigenti erano piccole ancelle). E certamente Mons. Farina alludeva anche alle piccole ancelle quando dice: Ho conosciuto anime di profonda e soda pietà, che esercitarono nella loro famiglia e fuori un apostolato molto spesso e fecondo e il cui esempio traeva altri a seguire le loro orme ed allargare sempre più la cerchia del bene. Tali anime erano in gran parte dirette da Mons. Grasso in confessionale.

MONS. FARINA ESECUTORE TESTAMENTARIO
DI MONS. GRASSO.

Nel 1919 Mons. Grasso vergava il suo testamento e nominava Mons. Farina, già eletto vescovo, suo esecutore testamentario e erede universale. Tra l’altro è detto alla fine: Ringrazio moltissimo il mio carissimo Mons. Farina di tutto il bene che mi ha voluto e che mi ha fatto…”. Le volontà testamentarie di Mons. Grasso divennero esecutive dieci anni dopo, essendosi egli addormentato santamente nel Signore il sabato santo 30 marzo 1929. mons. Farina accorse subito a Salerno e partecipò con viva commozione ai funerali e alla tumulazione in Cattedrale. Il can. Masi ricorda un particolare rimastogli vivamente impresso: sulla tomba rimase genuflesso, parecchio tempo e con uno sfogo di pianto che inteneriva, Mons. Farina, vescovo di Troia e Foggia.

Undici anni dopo sarà presente alla inaugurazione del monumento a Mons. Grasso, avvenuta in cattedrale il 4 aprile 1940. sulla lastra marmorea erano incise le parole dell’epigrafe dettata da Mons. Farina: CAROLUS GREGORIO M. GRASSO O.S.B. ARCHIEPISCOPUS PRIMAS SALERNITANUS PIETATE ET CHARITATE EXIMIUS.

A CONCLUSIONE DEI RICORDI PRESENTATI CON TANTO DEVOTO ANIMO Mons. Farina non esitava d esprimere il suo giudizio sulla sanità del Presule: Questa carità pastorale; animata da fede così viva, sorretta da così incrollabile speranza toccò in lui delle vette di tale splendore da potersi con sicurezza affermare che nell’esercizio delle tre virtù teologali ebbe dello straordinario e dell’eroico. E dopo aver messo in luce altri aspetti delle sue eccezionali virtù. Affermava: Non mi farebbe meraviglia se un giorno lo vedessi glorificato dal Signore anche su questa terra.

MORTE DI MONS. FARINA – COMPIANTO DELLA PIA UNIONE

Questa glorificazione, se ci sarà, Mons. Farina la vedrà dal Cielo. Poco dopo infatti, il 20 febbraio 1954, egli raggiungeva il suo amatissimo Arcivescovo. Vivissimo fu il rimpianto a Salerno. Il Bollettino del Clero, organo ufficiale della diocesi, nel darne la notizia tracciava un sintetico, ma sentito necrologio del Defunto, indimenticato apostolo della gioventù e sempre affezionato alla nostra terra, lascia esempi ammirabili di virtù, zelo apostolico, frutto di generosità e sacrifici. Sacerdoti che da lui debbono la corrispondenza alla vocazione, istituzioni che col suo nome veneratissimo tramandano il fascino di una vita spesa solo per Dio e per la Chiesa.

Non meno vivo fu il rimpianto della Pia Unione. Nell’adunanza di fine mese la superiore espresse la partecipazione di tutte le consorelle al cordoglio per quella perdita della chiesa e comunicò che il direttore dell’associazione, canonico Michele Gargano, avrebbe celebrato il suffragio del nostro benefattore. In seguito fu raccomandato di cooperare per la raccolta di notizie utili per la introduzione della causa di beatificazione di Mons. Farina.

NELLA CASA DEL PADRE CELESTE

Prima o dopo la dipartita di Mons. Farina quasi tutte le carissime consorelle a lui contemporanee hanno raggiunto il cielo; così pure i santi prelati e sacerdoti che furono illuminate, guidate, sorrette nel cammino della perfezione e dello zelo apostolico. La famiglia del S. Cuore si è andata man mano ricostituendo nella casa del Padre, alla quale ritornò la Madre Margherita la vigilia dell’Annunziata del 1965, ove l’ha raggiunta quasi centenaria (mancavano tre mesi) la sorella Adele che le era stata sempre a fianco nella guida della Pia Unione e le era succeduta, dopo la sua morte, nella carica di superiora.
Termino comunicando che di tante anime elette fiorite nella Pia Unione del S. Cuore, spero di poter tracciare un sobrio profilo, come mi è stato chiesto dall’ubbidienza.

 

Testimonianza di Assunta Giancaspero
Appunti

Sia lodata e ringraziata la SS.ma Trinità.
Mons. Farina è ancora vivo nella mia vita e soprattutto nel mio cuore, perché i suoi insegnamenti mi sono stati guida e grande aiuto nella vita spirituale e di pratica di amore verso il popolo di Foggia che lui tanto amava.

Era il mio direttore spirituale ma non voleva essere chiamato tale. Avevo delle anime quasi a me coetanee che avevo cercato di far conoscere ed amare Dio e che mi seguivano, bontà loro e onore grazia e lodo a Gesù che me le aveva date.

Mons. Farina le volle conoscere, erano quasi una per parrocchia, ci riuniva ogni settimana e con la sua parola ci portava alla conoscenza e all’amore di Dio, fino al punto che chiedemmo di consacrarci (avevamo compreso bene il valore dei voti e della consacrazione). Ci accettò e mi mise a capo di quelle sorelle.

Dopo la consacrazione (in privato) ci riuniva ogni mese con la S. Messa, e con pensiero per la pratica dei consigli evangelici e il distacco. Ci faceva mettere le corone del rosario insieme, le benediceva e ne dava una ciascuna, presa a caso, in modo che non avevamo più la nostra.

Ci invitava a dare relazione delle opere di bene compiute durante il mese, e proprio come un padre, un fratello, ci dava i consigli necessari e soprattutto voleva che vedessimo Gesù nei fratelli.

Nascevano così i futuri Istituti secolari nei quali parecchie di noi fummo le prime, 9 di esse invece andarono Suore nei diversi Istituti Religiosi.

Ci affidò la Chiesa di S. Domenico e locali annessi per un’opera “S. Pietro Canisio” che affidò al gruppo e dette come assistente il suo segretario D. Michele Scotto. L’opera raccoglieva tutti i bambini poveri e abbandonati della città.

I bambini venivano prelevati dalle parrocchie da una sorella e accompagnati nei locali del Vescovado dove si svolgeva il seguente programma:
Gioco;
Chiesa: breve visitina a Gesù;
compiti, aiutati dalle signorine
di nuovo gioco.
In chiesa di nuovo – catechismo
Saluto a Gesù;
e poi ritorno a casa.
Di nuovo accompagnati.
Quell’opera ha dato quasi tutti i sacerdoti di Foggia e qualche religioso. Uno di essi superiore dei Gesuiti che morì (P. Aldo Belardinelli). Si preparavano i bambini alla prima Comunione e Cresima e i più buoni preparati per il seminario: per la retta pensava la divina provvidenza.

Il numero dei bambini cresceva e nacque così il catechismo parrocchiale sempre alla nostra cura.

La guerra, il fascismo, ci trovò preparati e pronti ad affrontare bisogni spirituali e materiali sempre sotto la guida del Vescovo.

Due centri: la Pianara e le Casermette furono maggiormente curati. Ci dette per assistente D. Antonio Rosiello.

La Pianara era centro di immoralità: coppie non sposate con bambini, tutti insieme, i letti divisi da un lenzuolo.

Lì ci mandò Monsignore: “Andate, Gesù è con voi, la vostra purezza non avrà a subirne danni”. Ubbidimmo, Gesù era con noi, ci benedisse con una pioggia di grazie: matrimoni quasi tutti regolarizzati, bambini battezzati, adulti battezzati, 1a Comunione e matrimoni. La preghiera del S. Vescovo ci accompagnava e faceva superare ostacoli di ogni sorta non esclusi quelli finanziari. La Provvidenza era con noi.

Con la guerra furono create 5 parrocchie: Immacolata, S. Anna, S. Stefano, S. Luigi, Madonna della Croce.

Anche questo lavoro fu affidato al gruppo. Tutto era seguito secondo i suggerimenti, la guida del Vescovo.

Noi eravamo coloro che mettevamo in pratica gli ordini ricevuti. Così nelle nuove parrocchie furono messi i semi delle opere essenziali: apostolato della preghiera, catechismo, azione cattolica in tutti i rami, catechesi, liturgia.

Il Terz’Ordine francescano in tutte le parrocchie tranne che nella Madonna della Croce. Alle parrocchie dell’Immacolata e S. Anna si dette più incremento.

Dopo la guerra:
– Monsignore volle Istituti religiosi, Suore S. Giuseppe, S. Anna, S. Paolo e ritorno delle Redentoriste a Foggia. Tutto quello che era necessario fu affidato al gruppo sempre sotto la sua direzione, compreso l’aiuto materiale che non faceva mai mancare. Era l’anima di tutto. Non accettava nessun pensiero (regalo. In una festa gli mandammo un po’ di dolci, ci fu suggerito). Dolcemente mi disse: “Sia la prima e l’ultima volta, per questa volta li accetto, ringrazio e non si ripeta più”.

L’Azione Cattolica fu voluta e sostenuta sempre dal Vescovo che, mise a disposizione i locali del Vescovado.
Spesso la Sua presenza era di stimolo a fare più e meglio
Foggia, 11-9-90
Giancaspero Assunta

Continuano i ricordi

Parlava di identificazione col Cristo, ma Lui era il modello su cui specchiarsi: preghiera, raccoglimento, parole poche, ma piene di saggezza, prudenza, improntate al Vangelo.

Lo si trovava sempre in cappella inginocchiato al suo inginocchiatoio. Quando gli si parlava pareva che fosse assorto e non seguisse invece… dava risposte, consigli. Il suo era raccoglimento, preghiera: e il suo parlare incitava alla fiducia al Padre celeste e fedele, che non ci abbandona e provvede; incitava a perdonare le offese ricevute, tacere di esse e dimenticarle.

Incitava all’amore di Dio e della Mamma di Gesù che è Mamma nostra e come tale, ci ama, guida, conforta, assiste, consola. Parlava della Madonna proprio come un figlio amoroso parla della mamma sua e ripeteva: “Andate a Lei in tutte le circostanze, spirituali e temporali e troverete ristoro: fatene la prova.

Mons. Farina amava Cristo, i giovani, i piccoli, gli anziani, i poveri, i sofferenti, i cattivi e diceva che in essi si doveva vedere il Cristo e sentirsi come responsabili della loro salvezza eterna.

I giovani: e volle il Circolo Manzoni e spesso era in mezzo a loro; volle anche un giornale.

I bambini: catechismo parrocchiale, riunioni di insegnanti, di mamme, di catechisti.

Gli anziani; i poveri: fu l’anima per la fondazione e la vita di Maria Grazia Barone.

Vocazioni: il Seminario e il Piccolo Seminario tenuto dalle Suore con scuole allo scopo di preparare i piccoli futuri chiamati al Seminario.

L’Azione Cattolica: in tutti i suoi rami, con la valida formazione spirituale di assistenti e soci dei vari rami: si sviluppò e dette frutti a bene delle parrocchie, delle sue famiglie.

La presenza di Mons. Farina, portava sprone a far bene a se stessi ed al prossimo.

Gli ammalati: volle un gruppo di volontari, e per le case e per l’ospedale.

I carcerati: non furono dimenticati. Anch’essi venivano visitati da qualche socio di Azione Cattolica e si ebbe la celebrazione della S. Messa non ricordo se a Pasqua o a Natale.

La liturgia: ricordo che fece distribuire gli opuscoli della Messa in italiano della regalità e volle nelle Messe domenicali delle parrocchie una persona preparata che leggesse in italiano: l’introito, l’epistola, e il Vangelo della S. Messa. Così per l’amministrazione degli altri sacramenti. Per essi volle la preparazione.

Volle che le feste di Natale, Pasqua e della Madonna dei Sette Veli, fossero feste delle anime, nascita di Gesù nei cuori (confessione e comunione). A Pasqua il precetto.

La festa della Madonna: alla festa esterna della città volle inculcare quello delle anime e delle famiglie e sopra tutto dei poveri.

Ritiri mensili, esercizi spirituali furono istituiti da Mons. Farina. Ci volle, li incoraggiò e li aiutò, spesso sostituiva chi li dettava.

Quei ritiri ed esercizi erano e sono indimenticabili per la fede, l’amore e la conversione che portavano alle anime.

Ovunque nella diocesi, nelle parrocchie, nelle famiglie, nei gruppi Mons. Farina era presente se non personalmente, con la Sua Opera, con la Sua parola, col suo esempio: il suo amore , la Sua dolcezza, la Sua fortezza.

Io negli anni che gli sono stata vicino ne ho riportato doni e benefici spirituali, come un sigillo: dal valorizzare il battesimo, viverlo; dalla consacrazione all’abbandono e grande fiducia in Dio… all’apostolato nelle sue varie forme. In una parola possedere Dio e donarlo.

Foggia, 7 marzo 1991

Giancaspero Assunta

 

 

Testimonianza di Aurelia Farina (sorella di Mons. Farina)
25 Marzo 1960 Baronissi – Annunciazione della Beata Vergine Maria

Monsignor Fortunato Farina mio venerato fratello era il secondo di nove figli; nato da Francesco Farina ed Enrichetta Amato il l8 Marzo 1881.
Ricordo che fin dalla più tenera età egli aveva tendenza a tutto ciò che avvicinava Iddio. Nostra madre che cercava di accontentarlo, gli aveva fatto confezionare una piccola pianeta, una cotta, una stola ecc., un piccolo calice con pisside e campanello. Con tutti questi accessori Fortunato aveva messo su nella villa in sito appartato, un altarino, dove Lui fanciullo, s’illudeva di celebrare la S. Messa. Mia sorella Lina ed io funzionavamo da sacrestane addette a ordinare l’altarino, accendere le candele e sonare il campanello a tempo dovuto.

All’età di sette anni entrò nel Convitto Pontano della Conocchia sito in Napoli, assieme al fratello Mattia; nostro padre lo affidò ai dotti e pii PP. Gesuiti per i suoi studi e la sua educazione.

Prima nel Convitto Pontano e poi nel Collegio esterno dello stesso nome, compì con lode i suoi studi. Fin dalla sua tenera età egli ebbe una natura docile, non conoscendo il capriccio e la prepotenza, era sempre Lui ad avere una parola buona, espressione del suo animo mite ed umile. Nel 1897 egli fu colpito da grave malattia ed i nostri genitori, preoccupatissimi, lo affidarono alle cure dei Professori Guarino e Paolucci. La sua salute rifiorì dopo un anno di cure a Posillipo nella villa Gotthail.

In seguito poi nel Maggio del 1898 si trasferì nella proprietà di famiglia, tenuta Improta dove svolse un’attività quasi di catechista e di attiva collaborazione col nostro cappellano.

A 19 anni nell’anno Santo del 1900, si sentì chiamato apostolo di Dio, e vestì l’abito ecclesiastico, e per i suoi studi filosofici e teologici fu affidato a due valenti Professori generosi Sacerdoti del Clero di Napoli; il prof. Gioacchino Brandi e il maestro Petriccione. Nella Sua vita studentesca, mio fratello Fortunato, fu un vero apostolo della gioventù, che Egli voleva consacrata a Dio, e dei poveri che egli soccorreva e consolava con la parola del vangelo. Con una mirabile fecondità di azione, a Napoli lavorò per molti anni nel Circolo Cattolico Universitario ed in varie opere di carità. A Baronissi si dette all’incremento delle opere catechistiche e fondò il Circolo Giovanile Cattolico, e la casa operaia di S. Rocco.

Il 19 settembre del 1904 nella Chiesa dei francescani in Baronissi circondato dalla gioia indicibile dei genitori di noi fratelli, nonni, zii e prozii, Fortunato ascese per la prima volta all’altare, assistito dai Rev.di Padri e Canonici del Duomo di Salerno, dal Clero del Comune e dal Collegio dei Parroci della Forania di Cava. Oratore della circostanza fu l’Ill.mo Padre Rillo che con frase scultorea e poetica levò un inno al Sacro Ordine del sacerdozio. Egli disse di essere orgoglioso di offrire al novello levita, a nome degli antichi educatori; il fiore purissimo dell’ammirazione tra i fiori che profumano la sua angelica sembianza, fra i fiori dell’affetto da parenti e congiunti.

Oltre alla Laurea in Teologia egli volle prendere anche la Laurea in Lettere presso la R. Università di Napoli; fu poi Direttore Spirituale del Seminario di Salerno e di quello della SS.ma Trinità di Cava. Nel Seminario di Salerno insegnò pure agli studenti di Teologia coprì la carica di amministratore nell’archidiocesi di Salerno. Fondò il Circolo dell’Unione Apostolica fra i Sacerdote e dette forte impulso al Circolo Giovanile Cattolico. Ma sulla sua laboriosa feconda vita Sacerdotale in Salerno, lascio la descrizione a mia sorella Lina, che al pari di me lo amò intensamente e gli fu vicina per molti anni avendo avuto la gioia di ospitarlo in casa sua.

Riprendo i miei ricordi della sua vita a Troia, quando mio fratello Fortunato 1919 fu consacrato Vescovo. Dopo qualche anno mia madre morì 1921 e così sentii in me il desiderio di essergli vicino quanto più mi era possibile. L’opera alla quale si dedicò con tutto l’amore e vero spirito di Sacrificio fu la rinascita del Seminario amando i Seminaristi come suoi figli. Le sue giornate trascorrevano tutte dedite a chiunque bussava alla sua porta, ricco o povero, non conoscendo orario di pasti, né di riposo; tutti incoraggiava con la Sua buona parola, avvincendoli con la dolcezza del suo sorriso e così conquistava i cuori più duri e indifferenti; conducendoli alla fede e a Dio, unica meta di tutta la sua vita. Come il poverello di Assisi Egli viveva. Era superfluo rifornirgli il guardaroba di indumenti personali, tutto donava ai più bisognosi, riducendosi Lui in condizioni modestissime. Dedicando quindi le sue giornate al suo gregge, le notti le trascorreva scrivendo, pregando in cappella fino a tarda ora e sovente non si caricava; io me ne accorgevo al mattino entrando nella sua camera ove il letto non era disfatto. Faceva uso di cilicii nella notte tra il giovedì e il venerdì; io dormivo in una cameretta accanto alla Sua e alle volte ero svegliata dai colpi delle cordelle annodate dei cilicii, il cassetto del comodino ne era pieno, compreso quelli in ferro a catena che soleva applicare alle gambe, ne era la conferma la sua biancheria intima, che il più delle volte era lacera. Nel 1926, gli fu affidata anche la Diocesi di Foggia, così la sua giornata fu gravata di lavoro in ogni campo, senza tregua né riposo specie nel dopo guerra, in codesta città, mi recavo per alcuni mesi, ogni anno, sua ospite nell’episcopio, avendo Egli bisogno del mio modesto aiuto casalingo per organizzare, riordinare tante cose necessarie al Seminario e all’Episcopio.
Uscivo spesso per la città per acquisti; e in ogni negozio che entravo, i proprietari m’intrattenevano a lungo, narrandomi piccoli e grandi episodi che mettevano in luce la carità nascosta del loro adorato Pastore, venerato e amato da tutti come un padre.

Anch’io con l’andare degli anni, amai quel popolo, che se ne mostrò degno, in ogni occasione e che volle le Sue spoglie in cattedrale.

Aurelia Farina ved.Pellegrino

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N. d. r.: In data 18 Ottobre 1956 la Sig.ra Aurelia ha inviato a Don Mario De Santis la seguente testimonianza sull’infanzia del fratello vescovo:

Ricordo dell’infanzia di mio fratello Fortunato
Vescovo di Troia e Foggia

Ben poco posso dire della prima fanciullezza del mio prediletto fratello Fortunato.

Lasciai sposa la casa paterna a 19 anni quando lui di anni 21 era studente nella villa di Napoli, così tra i miei 8 anni di collegio dalle Suore del Sacro Cuore di Portici (dagli 8 a 16 anni) restammo assieme solamente il periodo delle vacanze di 3 anni, e proprio in quel periodo lui finì gravemente ammalato per ben sei mesi che trascorse con la mamma, a Posillipo, per volere dei medici, ove l’aria più mite e con l’aiuto Divino e le molteplici cure superò il suo male. In quei mesi costretto a stare a letto quando trovavasi nella sua stanza un’anziana donna del paese (addetta al grosso servizio della casa già da molti anni) lui era raggiante quando questa dietro sua insistenza intonava delle canzoncine popolari alla Madonna del Santuario di Montevergine, ove spesso questa si recava in pellegrinaggio sui carri campestri cantando “jamme po’ muntagnone, iamme a truvà mamma Schiavone; iamme pa muntagnella, iamma a truvà la schiavuttella e si non ce turnamme chiù ce vedimme all’eternità”. L’effigie della Madonna è con due occhioni neri e profondi e così penetranti che si ha l’impressione come se volesse parlare.

Negli anni che precedettero il collegio dai miei 5 anni agli 8 spesso invitava me e le mie sorelle nella villa paterna davanti ad una piccola grotta trasformata in cappellina, ove lui con paramenti da Sacerdote in miniatura (lavoro della mamma che coltivava questa sua tendenza) recitava la S. Messa a noi sorelle, a turno dovevamo funzionare da inservienti e pretendeva la massima esattezza in ogni dettaglio. Nelle ore di ricreazione preferiva i giuochi in ginnastica, nascondarello, indovinelli, ed era soddisfatto della buona riuscita di quanto lui organizzava . il suo carattere appariva fermo e leale, non ammetteva bugie, e inculcava la carità verso i poveri ed i sofferenti, il rispetto verso i genitori ed i vecchi in generale. A tutte le ore invocava la Madonna come se avesse parlato con la propria mamma (che lui adorava). A questo proposito ricordo bene che lui ogni anno nell’estate veniva alla Marina di Vietri Mare (Villa Pellegrino) ove si tratteneva in piacevole compagnia con la famiglia di mio marito e coi miei figlioletti. Ogni mattina il mio cameriere di fiducia il vecchio Giuseppe (che restò in mia casa circa 30 anni) lo accompagnava in barca alle marinelle, piccole insenature della costa, solitarie e raccolte, ed il mio cameriere mi diceva che tutto il percorso del bagno mio fratello invocava la Madonna e varii Santi. Subito dopo il bagno saliva alla Chiesetta della Madonna dell’Arco sito a 200 m. sul mare e poi rientrava in casa dicendo che la visita alla Madonna gli procurava una reazione salutare. Era di buon appetito e ghiotto di dolci dei quali se ne è privato di 32 anni di vita: se gli si donavano li gustava, ma lui non ha mai dato incarico né a noi di famiglia, né al suo cameriere di acquistarne.

Fin da quando lasciai la casa paterna all’età di 19 anni, nutrivo per lui un’ammirazione, un sentimento di venerazione e di fiducia come si può avere per un Santo, prova ne sia, che da quel giorno cioè dal mio viaggio di nozze, cominciai a conservare ogni suo scritto. Quando fu nominato Vescovo nel 1919 non venne più nella casa di Vietri. Nei miei 50 anni di matrimonio mi è stato sempre vicino, sia nei periodi lieti che in quelli tristi, col suo sano paterno consiglio, era di una comprensione straordinaria, intuiva e mi diceva ciò che non ardivo confidargli e chiedergli; e nel mentre donava con generosità e delicatezza. Morta la nostra mamma, nello spazio di oltre 50 anni, la sostituì con amore più che materno, dandomi prova di un affetto senza fine, che mi segue e protegge anche dal regno dei Cieli: ove si trova, quale compenso della sua vita che è stata per noi tutti un esempio e una benedizione.

Aurelia Farina ved. Pellegrino

 

Testimonianza di D. Fausto Mezza, Abate di Cava dei Tirreni
(senza data, presumibilmente intorno al 1970)


Appunti sui miei ricordi di Mons. Fortunato Farina

Il mio primo incontro con Fortunato Fatina rimonta a qualche cosa come il 1897-98 giù di lì. Incontro per modo di dire, perché eravamo tutti studenti all’esternato dei PP. Gesuiti in Napoli a via Atri palazzo Wispeare. Senonché lui era alla seconda o terza liceale, mentre io ero in prima o seconda ginnasiale. Ci vedevamo, ecco tutto, o meglio, ero io che vedevo lui, che emergeva fra tutti, jn quanto era prefetto della Congregazione Mariana, e sedeva al banco dei dirigenti in cappella. E poi era segnato a dito, come l’esempio vivente degli alunni e dei congregati mariani.

In seguito lo persi di vista. Quando io nell’ottobre del 1900 lasciai Napoli per la Badia di Cava, lui aveva già lasciato da almeno due anni l’esternato dei Gesuiti.

Durante gli anni del mio tirocinio monastico sentii dire che Fortunato Farina fosse chierico esterno in Napoli. E siccome a Napoli l’avevo conosciuto, ero convinto allora che egli appartenesse al clero di Napoli. Solo più tardi, quando io ero già sacerdote e rettore del Seminario della mia Badia,venni a sapere che il Farina esercitava il ministero sacerdotale in Salerno e che apparteneva all’Archidiocesi Salernitana.

Fu nell’ottobre del 1913 o 14 che “scoprii” D. Fortunato Farina, e da allora ci legammo da salda e, almeno da parte sua, santa amicizia. Andavo in cerca di un buon predicatore di esercizi pei miei seminaristi. Ne parlai con la piissima signorina Anna Colavolpe, sorella del nostro P. D Guglielmo. La signorina Colavolpe, che era allora in villeggiatura a Corpo di Cava, non ci pensò due volte a propormi D. Fortunato Farina, del cui apostolato a Salerno mi disse mirabilia. Detto fatto, lo invitai e D. Fortunato accettò.

Non è facile spiegare in brevi note ciò che per sei o sette anni rappresentò D. Fortunato nel mio seminario. Non solo dava gli esercizi annuali, ma tornava ogni due mesi per un ritiro di due o tre giorni, prodigandosi pei miei giovanetti, come se non avesse niente altro da fare. E i miei seminaristi lo adoravano, né mai pigliarono in uggia di sentire sempre la stessa voce, anzi pareva loro che nessun altro potesse pigliare nella direzione del loro spirito il posto di D. Fortunato.

La sua predicazione non si perdeva in frasche e fiori, ma andava diritta allo scopo. Predicazione apostolica alla S. Alfonso. Più che della bruttezza del vizio, parlava della bellezza della virtù; e quando trattava della purezza lo faceva con un sentimento ed un trasporto da incantare. Del resto tutto il suo aspetto ispirava purezza: la castità sacerdotale pareva personificata in lui. E non parliamo della sua devozione alla Madonna. Nelle sue prediche il pensiero della Madonna era sempre presente. Per molti anni in occasione dell’Immacolata io mandavo alla sua villa di Baronissi pei fiori, e lui mi mandava delle bellissime rose, che davano al nostro altare un aspetto primaverile. Tutti noi che potemmo beneficiare del suo zelo, ed io innanzitutto, gli dobbiamo infinita gratitudine per averci trascinati, con la parola e con l’esempio, ad una vera e grande devozione a Maria.

Ma non bisogna credere che egli fosse quel che si dice “un prete bigotto”. Per niente affatto. Tre erano le doti precipue del suo carattere e della sua opera di sacerdote: dolcezza, serenità, signorilità. Non lo si vedeva mai alterato. Anche nelle difficoltà e contrarietà tutto si risolveva in un sorriso. Ed assai spesso non si trattava solo di sorriso, ma di autentico riso, perché aveva vivo il senso dell’umorismo. Era un santo, senza dubbio, ma un santo che sapeva ridere e far ridere, in perfetta letizia. Usava sempre maniere dolci e suadenti, ma una dolcezza la sua che non era un manierismo affettato, era la mitezza di un’anima umile, padrona di se stessa, che mai si faceva trasportare da moti passionali, sia pure a fin di bene. Ed era un signore, nel senso più alto e trascendente che possa darsi a queste parole. Ricordava il Santo signore per antonomasia: S. Francesco di Sales.

A proposito della sua imperturbabile serenità voglio ricordare un episodio curioso che capitò una volta che venne a predicare nel Seminario Abbaziale. Al mattino era incaricato un chierico di andarlo a rilevare nella sua camera, ad ora debita, ed accompagnarlo in Seminario, dove teneva la meditazione e celebrava la S. Messa. Quella mattina il chierico andò, ma tornò in Seminario senza D. Fortunato. – P. Rettore, mi disse, D. Fortunato non c’è. – Come, non c’è? – Ho bussato più volte alla sua camera, poi ho aperto pian pianino, e con mia meraviglia ho trovato che il letto non è nemmeno sfatto, ma tutto è in ordine, come se lui non avesse passato la notte nella sua camera. – Non sapevo francamente che pensare ed andavo fantasticando su ciò che era potuto occorrere, quand’ecco me lo vedo arrivare, calmo e sorridente, ma col volto estremamente pallido e affaticato. – Ma che ti è successo? gli chiedo. – Niente, niente; per ora andiamo in cappella e dopo la Messa ti spiegherò. Era accaduto questo: che la sera, mentre i monaci recitavano Compieta in coro, lui se ne stava dinanzi all’altare del Sacramento a pregare. Frattanto, o perché immerso nell’orazione, o perché fosse appisolato per la stanchezza, il fatto sta che si trovò solo in chiesa: i monaci erano andati via e le porte erano tutte chiuse e sbarrate. C’era, alla porta del coro, la corda di una campanella, che serviva e serve tuttora per chiamare la comunità al coro. Avrebbe potuto afferrarsi a quella campanella e suonare, per avvisare che qualcuno era rimasto chiuso in chiesa. Ma non lo fece, lui disse per non disturbare il silenzio notturno; io credo per prendere occasione di mortificarsi. Difatti decise di passare la notte in preghiera, e per non farsi vincere dal sonno, si mise in piedi dinanzi al leggio o in mezzo al coro, accese la lampadina del leggio, aprì sul leggìo il suo breviario e si pose tranquillamente a recitarlo. E siccome era d’inverno e faceva freddo, prese dall’armadio della sagrestia un’ampia cocolla monastica, la indossò e così ammantato, continuò la sua preghiera, ritto in mezzo al coro. All’ora del matutino, depose la cocolla e prese posto nei banchi dinanzi al Sacramento, come se nulla fosse avvenuto. – Caro Fortunato, gli dissi, pensa che sarebbe accaduto se qualcuno, per una qualsiasi ragione, fosse sceso in chiesa durante la notte: a vedere un monaco sconosciuto, ritto in mezzo al coro, chiuso nella sua cocolla, quel poveretto sarebbe morto di spavento. A questa mia osservazione, tutto finì in una grande risata.

Dovrei riferire qualcosa della sua vita di Vescovo. Ma il suo biografo è sì ben fornito e provveduto in proposito, da non sapersi che fare dei miei ricordi personali. Molte volte sono stato a Troia ed a Foggia, chiamato da lui o per esercizi in Seminario o per predicazione al popolo. Ho sempre trovato lo stesso D. Fortunato, sereno, spontaneo, senz’aria e senza posa. Il tratto era sempre quello suo, caratteristico, al quale la dignità episcopale aggiungeva, se mai, una delicata sfumatura di spiritualità.

Io me ne tornavo sempre spiritualmente migliorato dai miei incontri con lui.. Egli non assumeva mai arie di maestro, ma quante cose ho imparate da lui; questa soprattutto: come si possa armonizzare perfettamente la più profonda umiltà col più alto sentimento della propria dignità di pastore delle anime.

Una volta, a Troia, – voglio narrare questo episodio – dovevo ripartire all’indomani prestissimo con la corriera, e si era in dicembre. Fu stabilito che avrei celebrato alle 5 nel suo oratorio, dove tutto era stato disposto per la S Messa. – Ma, e l’inserviente? Chiesi io. – Per l’inserviente è già provveduto, mi rispose. E all’indomani alle 5 io ero nella cappella e mi preparavo a celebrare, quand’ecco giungere l’inserviente. E chi era l’inserviente? Era lo stesso Vescovo, che mi si mise a lato in ginocchio e mi servì la Messa con pietà esemplare, senza omettere la benché minima cerimonia, come il più diligente dei chierichetti.

Termino queste affrettate note con un voto: che il Signore voglia mandare alla sua Chiesa molti sacerdoti e molti Vescovi come D. fortunato Farina.

D. Fausto M. Mezza O. S. B.

 

 

Testimonianza di D. Mario Martorano
(in un lettera inviata a D. Mario De Santis)

Carissimo D. Mario – Da Salerno – Marzo 1960
Spedito il 23 Aprile 1960

Plaudo “toto corde” per l’iniziativa, da te presa, di tracciare, con testimonianze di molti amici, dell’amatissimo ed indimenticabile Mons. Farina, una Sua ampia biografia, onde dalla conoscenza, per molti, della Sua mirabile vita, sia data gloria al Signore.

Il Suo amore ai giovani ed alla loro formazione per le varie mete della vita di ognuno fu la costante preoccupazione del suo apostolato a Salerno e nella qualità di Direttore del Circolo Giovanile Cattolico e di Padre Spirituale del nostro seminario Arcivescovile. Io ebbi la fortuna di avvicinarlo al Circolo Giovanile Cattolico fra i quattordici e i quindici anni attrattovi da alcune recite che nel periodo del carnevale si svolgevano nella sua prima sede al largo Campo presso la parrocchia di S. Andrea.

Passai alla nuova dimora al largo S. Petrillo seguendo tutta la vita del Circolo Giovanile fino alla elevazione all’Episcopato di Mons. Farina, ed anche dopo quando fu la sede ospitata nel Palazzo Arcivescovile. Fui uno dei primi ricevuti nella Congregazione Mariana fulcro del Circolo, dopo di aver partecipato agli esercizi spirituali celebrati in quella prima aggregazione dal P. Broia della Compagnia di Gesù. Non avevo allora la vocazione al Sacerdozio, ma solo una illimitata ammirazione per D. Fortunato, come era anche di moltissimi giovani salernitani, molti miei compagni di scuola. Ero allora uno sportivo del podismo che era in voga ai miei tempi. Nel 1915, essendo fra i giovani uno dei più vicini a D. Fortunato, fui eletto Prefetto della Congregazione Mariana e Presidente del Circolo (furono eletti con me 1°= Assistente Guido Bossa oggi Direttore della Prima Clinica Medica Napoletana e Filippo Quariariello che morì assistito da Mons. Farina, ancora in età giovanile). Mi seguì nella Presidenza del Circolo il Sottosegretario Carmine De Martino anch’egli molto amato da D. Fortunato, amicissimo della sua famiglia. Nella detta qualità fui a Roma per la consacrazione Episcopale di Mons. Grasso, ad Arcivescovo di Salerno. D. Fortunato mi presentò al S. Padre Benedetto XV, ed essendosi alquanto indugiato il papa presso i giovani del Circolo ed il Suo Direttore ebbi modo di baciare due volte la mano al Sommo Pontefice con grande gioia.

Mia Madre sapendo che frequentavo il Circolo Cattolico volle un giorno conoscere D. Fortunato Farina, che a Salerno attirava tanti giovani. Lo avvicinò dopo la S. Messa celebrata alla nostra parrocchia di S. Domenico da D. Fortunato per la festa di S. Tommaso d’Aquino e mi raccomandò alle sue particolari cure. Mi volle anche onorato del suo compito di Padrino per la S. Cresima. D. Fortunato accettò e veramente per me ebbe un affetto paterno. Per il titolo di suo figlioccio lo seguivo dovunque per cui mi denominavano “l’ombra di Mons. Farina”. Dalla Sua Direzione spirituale ebbi l’invito a comunicarmi spesso e per due anni per il mese di maggio (e di giugno anche il secondo anno) finchè non mi varò alla comunione giornaliera, per cui potevo far mia la bella frase di Giosuè Borsi (una giornata senza comunione era una giornata senza pace, senza sole, senza riposo).

Con i confratelli d. Michelino Gargano e d. Oreste Noschese fui compreso nella schiera dei seguaci di S. Giovanni Bergmans per i quali d. Fortunato teneva una conferenzina particolare al Circolo Cattolico ogni sabato, indipendentemente da quello che teneva a tutti i giovani. Era il lievito che doveva preparare i futuri sacerdoti della nostra Città che scarseggiava di vocazioni sacerdotali.

Fu D. Fortunato anche mio confessore paziente ed affettuoso ed al Circolo Cattolico e al Seminario dove potevo accedere nella sua stanzetta di P. Spirituale quando volevo.

Mi suggeriva qualche volta di entrare nella Compagnia di Gesù, che egli amava molto. Mia madre era più propensa a vedermi Benedettino di Montevergine. Non sono stato né l’uno né l’altro certo con non pregio per la mia vita sacerdotale…Quando, conseguita la licenza liceale, mi iscrissi, per consiglio paterno all’Università di Napoli, per il corso di lettere, egli d. Fortunato se ne dolse: aveva divisato per me l’ingresso al Seminario di Posillipo. Mi scusai col dire che perdurando la guerra la mia famiglia non gradiva il mio ingresso in Seminario. Non pertanto mi lasciò senza guida. Per la mia permanenza a Napoli mi fece ospitare alla Conocchia, con particolare trattamento (ero non peraltro un compariello di Mons. Farina). Vi ritrovai il P. Broia della Compagnia, quale Padre Spirituale del Pontano. Conobbi molti Padri Gesuiti e sentii parlare da tutti dell’ottima condotta tenuta da d. Fortunato nella sua permanenza alla Conocchia col fratello Senatore Mattia.

Venne la guerra anche per me e durante il periodo militare non mi mancarono mai lettere lunghe ed in limpida calligrafia da parte di d. Fortunato, che anche a distanza voleva mantenere il fuoco sacro.

Nei familiari dolori per la morte dei miei amatissimi genitori: D. Fortunato per mia madre il 1918, e Mons. Farina per mio padre il 1924 furono consolatori e sostegno preziosi. Vinse le resistenze di mio padre, che rimasto vedovo, voleva che io, reduce di guerra, costituissi una mia famiglia. Ottenne per me il doveroso consenso paterno e partii, dopo la vestizione ecclesiastica al Circolo Cattolico, per un primo periodo di studi per la Badia di Loreto di Montevergine per seguire l’insegnamento filosofico dell’Abate Marcone, con il benestare di Mons. Grasso – Ero già al 24mo anno ed il Seminario Arcivescovile non poteva offrire una conveniente sistemazione. Fra i monaci avrei guadagnato non poco in formazione. Ma non ressi e rivenni al Seminario Arcivescovile di Salerno nel periodo in cui si formavano nel medesimo Seminario e d. Noschese e d. Gargano e d. Rocco e d. Vicinanza e d. Bergamo con me prefetti delle varie camerate – Siamo tutti oggi componenti del Capitolo Metropolitano e tutti diretti spiritualmente da Mons. Farina al quale ci lega un grande amore più che stima imperitura. Ebbi anche una permanenza breve al Collegio Capranica.

Un giorno Mons. Carinci (Segretario emerito della Sacra Congregazione dei Riti) allora Rettore dell’almo Collegio Capranica mi accolse con grande affetto dicendo:”vieni, vieni, figlio del Cuore di Mons. Farina”.

Non ressi neanche a Roma e rivenni a Salerno per finire ancora da Mons. Farina a Troia nel 1924, e ricevere da lui il suddiaconato e il Diaconato, per la festa di S. Giuseppe e per quella di S. Vincenzo Ferreri nella Cattedrale della sua Città natale. Ricordo per la prima ordinazione che si attese fino all’ultimo momento la lettera di Mons. Grasso che autorizzava Mons. Farina a conferirmi in suo nome il suddiaconato e il Diaconato – a breve distanza. Giunse per espresso alle ore 9 il Pontificale per la ordinazione era fissato per le ore 10 – Malgrado che l’autorizzazione era data, per espressa delicatezza Mons. Farina volle anche essere confortato dai Rev.mi Canonici della Cattedrale di Troia. Nell’emettere il voto di castità, come si usava da Mons. Farina, l’ordinando doveva ascendere sui gradini del trono episcopale e baciare l’anello del vescovo. Io ero ansioso, in quel giorno, ed in quell’ora sospirata, e prima che finisse la lettura della formula, io ero già di volo ai piedi del Vescovo. Non fu contento: mi fece ridiscendere in piano e fatta di nuovo pacatamente la lettura del “Considera et iterum considera” con la formula canonica, mi ammise alla sua presenza con grande amore.

Un giorno parlando a Mons. Grasso dell’opera preziosa di Mons. Farina a bene dei nostri giovani del circolo e lamentando la sua partenza per la sua Diocesi uscii in questa frase: “Per la partenza di d. Fortunato si è spento il sole a Salerno”. Egli era il nostro sole. Io così lo sentivo per la mia vita. E non solo io la pensavo così. Un sacerdote della sua bontà e santità noi giovani non lo trovavamo facilmente. Come potevamo avvicinare noi d. Fortunato non potevamo altri sacerdoti, pur essendovene molti degnissimi. Egli ci conosceva giovanetti, egli ci aveva diretti e sapeva leggere nel nostro cuore. Ci conosceva tutti per nome ed aveva condiviso tutte le nostre gioie ed i nostri dolori. Era il compaziente per eccellenza.

Se Troia acquistò in Mons. Farina un santo e tu ed i tuoi confratelli ne sapete per esperienza della sua vita episcopale,., noi qui a Salerno, io per lo meno, vidi mancarmi un valido sostegno ed un grande consolatore. Un particolare: Fui alla consacrazione Episcopale di D. Fortunato, eletto Vescovo di Troia a S. Carlo ai Catinari – Una giornata indimenticabile. Ricevetti fra gli altri e con gli altri amici, numerosissimi, la sua prima benedizione episcopale. La dignità del portamento, la figura ieratica rispecchiava in lui la dignità e la nobiltà della nuova missione. In sacrestia, quando mi feci largo per baciarlo, fra i primi a godere dei primi effluvii del suo episcopato mi vidi quasi contrastato il passo dai molti che si affollavano per precedermi, dominati tutti dallo stesso fuoco di amore – Ma egli mi cercava e mi invitava al filiale abbraccio – . Quando giunsi a Lui mi salutò con grande commozione dicendomi: Addio Mario. Fu quell’addio come uno schianto per il mio cuore filiale.

Quando mi ero rifugiato a Troia per ricevere poi da Mons. Farina gli ordini suddetti, ebbi qualche pena per l’attesa, ma egli mi confortò con un ricordo materno che mi confermò nella fedeltà della vocazione. Mi disse: quando tua madre esalava l’ultimo respiro io recitavo le litanie del SS. Nome di Gesù: Alla invocazione: Jesus Corona Apostolorum, ella si addormentò nel Signore. Puoi tu dubitare che io ti lasci partire senza averti condotto al porto del Sacerdozio? Mi ti ha raccomandato tua madre sul letto di morte ed il mandato materno è sacro per ogni sacerdote. La pena fu superata. Venne il permesso degli Ordini Maggiori e tornò piena la mia calma, la mia gioia e la mia vita per Apostolato delle anime.

La mia loquacità era a tutti nota. Il silenzio era il mio nemico personale. Un giorno d. Fortunato, e sembrami proprio alla parrocchia S. Agostino, dove io avevo il compito di ostiario e di capo sacrestano, mi disse per farmi tacere: “tu farai un lungo purgatorio per il tuo continuo parlare”. Eppure quella dote che non è ancora morta, mi ha giovato per il ministero della parola. Ho cercato di seguire la forma semplice di Mons. Farina, e di riempire di molti esempi edificanti, coloriti con molta “verve” i discorsi al popolo e specie ai fanciulli. Anche alla Scuola di Religione mi conoscono col nome del “Prete dei fatterelli”.

Ecco una nota del carattere scherzoso di d. Fortunato (se può giovarti). All’udienza del Papa. Per la consacrazione di Mons. Grasso nel commento che si faceva al “Passetto” dove fummo a pranzo in compagnia di D. Fortunato, manifestavo la mia gioia per aver potuto baciare due volte la mano al Santo Padre (come ti ho già detto sopra). Intanto avendo eccessiva cura di una cravatta scozzese avuta in regalo, mi alzavo spesso da tavola per ammirarmi nello specchio ed accomodare la cravatta che non mi sembrava mai bene a posto. Non potendone più D. Fortunato uscì in questa sua affermazione. “Il Papa caro Mario si è fermato non per altro motivo presso di te che per ammirare la tua bella cravatta”. Ne seguì una generale risata dei giovani commensali, ed io per nulla mortificato ero di nuovo allo specchio per i non ultimi ritocchi.

Ho avuto fin da giovane le mie fissazioni.

Calmava ogni mia tempesta: quante le mie tempeste! Interveniva facendosi mio scudo e mallevadore – Non sapeva mai giudicarmi severamente: mi conosceva da ragazzo, e mi aveva guidato costantemente al porto – Il mio nervosismo gli offriva facile argomento di scusa.

Mi gradiva moltissimo per le mie frequenti visite a Troia ed a Foggia e conversavamo piacevolmente durante le refezioni del mezzogiorno e della sera.

Ascoltava con interesse le mie memorie militari: le lotte per la difesa della virtù e dei principi cristiani. Mi consigliava di scriverne a futuro ricordo – giacchè il tempo attenua e manda via tante memorie, di fatti e di cose che potrebbero giovare col tempo per il loro ricordo.

Mi educò alla buona custodia e all’ordinamento dignitoso e delicato delle cose e suppellettili sacre, per cui quando a Baronissi si preparò nel gran salone del palazzo Farina, la commemorazione del trentesimo del suo episcopato, da parte degli ex soci del Circolo Giovanile Cattolico Salernitano, dopo la sua grave infermità, volle a me affidato il compito di prepararvi l’altare, e quando venne a vedere se tutto era a posto si compiacque con me.

Per la festa dell’Assunta del 1953 l’ultima della sua vita terrena ero a Foggia. La folla dei cresimandi aveva invasa la casa del Vescovo. Dovette Monsignore, malgrado stanco, dividere l’Amministrazione del Sacramento in più tempi ed in più luoghi. Era rimasto un ultimo gruppo per la Chiesa di S. Domenico. Notando la sua pena nel parlare, mi offrì di fare io la consueta spiegazione sull’importanza della Cresima, non se ne dolse e mi fece fare, sicuro che non avrei maltrattato il suo mandato.

Venni per l’avviso, pervenuto a Salerno, della sua ultima infermità, una mattina a Foggia per l’ultimo incontro che io pensavo fosse proprio l’ultimo. Ero abituato da tempo a vederlo finire e poi risorgere e a Salerno e a Troia e a Baronissi. Nel ripartire per Salerno, avevo il giorno dopo impegno scolastico, egli disse, rivolto alla sorella, la signora Amalia Lanzara. “No’ mentre io chiedevo la sua benedizione per il mio buon viaggio – no: D. Mario non deve partire! Poi mi guardò… non volle insistere e mi fece partire! Era l’ultima benedizione dalla terra… ma tante io penso mi manda, anzi, ci manda dal Cielo.

In compagnia di Mons. Farina due volte fui ricevuto in udienza privata dal Papa. La prima, essendo seminarista, da un anno, fui presentato al S. Padre Benedetto XV. Fu tale l’impressione per quel primo incontro e così intimo col Papa, che, in ginocchio, presso la Scrivania non riuscivo più a riprender lena e non rispondevo alle domane del S. Padre. Il Papa tanto buono mi invitò ad alzarmi e guardò Mons. Farina perché mi avesse rincorato. Dopo Monsignore segnò su di una cartolina del Papa la data dell’incontro ricordando che essendomi posato sul mio capo la mano del S. Padre, io dovevo impegnarmi di prepararmi degnamente al Sacerdozio, ricordando sempre la benevolenza del Papa per me.

La seconda volta già sacerdote al S. Padre Pio XI per l’offerta di un mio dono che il Papa gradì molto e mi donò in cambio una Sua medaglia di argento del Suo Pontificato con belle parole di accompagnamento a conforto dei dolori della mia vita. In questa seconda lieta occasione furono ricevuti anche il can. Petrilli. Mons. Fares (non ancora Vescovo) ed il P: Liberatore Missionario del Pont. Istituto delle Missioni Estere di Milano, in partenza per la Cina (Hong-Kong).

Avrei tanto ancora da ricordare ma temo che nel farraginio delle molte, e penso lunghe, risposte che ti saranno pervenute dagli altri interpellati dovrai fare non poca fatica per stralciare e coordinare, avendo tu richiesti anche episodi slegati. E i miei hanno anche questo peccato oltre quello di un po’ di personalismo. Perdonami!

Celebro per Mons. Farina fedelmente ogni 20 del mese, ogni anniversario ed ogni S. Fortunato, che riposa nella nostra Chiesa Cattedrale. Invito in tali date anche le oblate del S. Cuore e i Piccolo Amici di Gesù ora a Salerno, dove celebro ogni giorno, a ricordare nella S. Comunione il nostro Mons. Farina a loro tanto caro e tanto ricordato e con tanta riconoscenza.

L’amore alla Madonna che Mons. Farina ci inculcava ha tanti episodi che me ne taccio, sicuro che ti son troppo noti e, dalle relazioni che avrai presenti, ampiamente rievocati. Custodii io, per qualche tempo in casa mia, la statua di N.S. del S. Cuore del Circolo Cattolico, perché non andasse dispersa. Ne fu tanto contento.

Le mie condizioni di forte esaurimento nervoso, che raggiunge degli stati anche di angoscia, per cui sono da tempo sotto cura endovenosa e sonniferi non mi danno la consolazione di ricordare tutte le tappe del grande amore di Mons. Farina per me.

CARO MARIO
Infine mi raccomando alle tue preghiere.
Ti ricordo un fatto che ti impegna a tanta carità.
La sera della mia prima S. Messa Mons. Farina mi richiese di una bella figurina ricordo che si riservava di offrire a un altro Mario, anche egli vocazione matura al quale egli voleva un gran bene, come del resto ne voleva anche a me. Se non vado errato quel Mario è oggi Padre Spirituale del Pontificio Seminario di Benevento. Quindi al medesimo nome si accompagnava la medesima direzione spirituale, come raggi di un medesimo sole. Il mio raggio ha perduto tanto calore e da tempo staccato dal sole va declinando. Spera nella divina misericordia.
Il tuo pur della stessa fonte prodotto, brilla ora di luce piena e deve col lavoro che ti sei assunto far rivivere per molti il benefico calore del Suo Sole.

Aff.mo in G.C.
SAC. MARIO MARTORANO

P.S. Ho letto queste pagine prima di spedire questa filastrocca alle Oblate, durante le vacanze Pasquali e due di esse Suor Nicoletta, e Suor Gertrude, mi hanno ricordato un particolare, della crisi di Mons. Farina a Baronissi. La notte che seguì l’attacco mortale i medici avevano raccomandato alle suore infermiere di ottenere da Monsignore un assoluto silenzio. Io lo vegliai quella notte con le suore e recitammo insieme il Santo Rosario. Mons. Farina rompendo la consegna dei medici, ad un certo momento, cominciò a parlare della SS. Trinità con grande fervore edificandoci per il suo amore al Signore. Alle premure delle suore preoccupate a sentirlo parlare affannosamente egli si tacque dicendo: Si vede che sono un chiacchierone. Essendoci poi alquanto ripreso, ricordò che anche S. Alfonso aveva ricevuto varie volte l’estrema unzione.

Testimonianza di Gennaro Farina (fratello di Mons. Farina)

La nostra Casa avita si ampliò gradatamente. La parte più antica è quel lato dove abitava Fortunato. L’attuale villa com’è fu ampliata, rimaneggiata da mio Nonno Mattia e dal fratello Fortunato che ebbe molta cura nell’ornare il parco con piante esotiche.
L’On. Giovanni Nicotera era amico di mio padre, del nonno Mattia e di Zio Nicola. Anzi mio fratello Giuseppe avrebbe dovuto chiamarsi Giovanni in onore dell’On. Nicotera.
Mio fratello D. Fortunato si ammalò gravemente e si trasferì a Posillipo a cambiamento d’aria per ordine del medico. Aveva 17 anni. Rifiorita la Sua salute decise per lo stato sacerdotale che aveva vagheggiato sin dall’adolescenza. Mio padre non volle che si rendesse anche Gesuita e diede il consenso perché entrasse nel Clero Diocesano.
Frequentò come chierico esterno i Corsi Teologici a Napoli, addottorandosi in S. Teologia. Mi consta aver praticato da giovane studente del Pontano e da Chierico, da Sacerdote e poi Vescovo aspre penitenze. In un secondo tempo studiò per la laurea in lettere.
Si trasferì a Salerno, se ben ricordo, nel 1912 e dimorò al Seminario Arcivescovile, dove fu Padre Spirituale.
Allo scoppio della guerra mondiale ‘15-‘18 fu nominato economo alla Parrocchia di S. Agostino in Salerno.
Ricordo che da piccolo aveva un carattere vivace; volitivo, ma obbediente e sincero. Avevo di Lui soggezione. Per tutti noi era l’esempio di virtù e ci era di sprone ad amare Iddio. S’interessava all’adempimento dei nostri doveri spirituali.
Baronissi (Salerno), 12-3-1960

Gennaro Farina

 

Testimonianza dell’Avv. Luigi Genua* su Mons. Farina

*(Luigi Genua, nato a Castelluccio Valmaggiore – FG – il 16.12.1928; entrato nel seminario di Troia in 1a media nel 1939-40; dopo cinque anni di ginnasio a Troia, è passato nel Seminario Regionale di Benevento, dove ha compiuto due anni di Liceo: dopo di ché è uscito dal Seminario).

Riferirò alcuni episodi che per me costituiscono ricordi incancellabili vissuti durante gli anni trascorsi nel seminario diocesano di Troia e in quello regionale di Benevento.

Da seminarista – Mons. Farina è stato considerato da me, come da tutti gli altri, non già il Vescovo, il Superiore, ma il padre affettuoso e premuroso.

Era interessato a conoscere il nostro profitto scolastico ed era attento alla nostre salute fisica. Nei periodi durante i quali imperversava la cosiddetta “influenza” era accanto a ciascuno di noi. In proposito ricordo che un giorno io ero costretto a letto perché colpito da influenza – si avvicinò al mio letto, notò che non avevo consumato l’arancia – estrasse dalla tasca il temperino, la sbucciò, la divise in spicchi e me li imboccò fino a consumarli tutti. Prima di allontanarsi mi accarezzò e mi disse: “Figliuolo l’arancia è ricca di vitamine, devi mangiarla sempre in questo periodo”. Si figuri come ne fui sollevato fisicamente e spiritualmente. Il mio Vescovo, il mio Vescovo mi aveva imboccato come il padre con il proprio piccolo.

Anche durante i pasti che consumava come noi e con noi – si avvicinava ai nostri tavoli per accertarsi se era di nostro gradimento.

Gli episodi da riferire sarebbero molti, ma mi devo limitare a quelli più significativi.

Frequentavo il 2° anno di liceo nel seminario Regionale di Benevento. Maturai il convincimento che la strada verso il sacerdozio non era per me percorribile e decisi di dimettere la veste talare. Informai Mons. Farina di questa mia decisone e Mons. mi consigliò di rimanere in seminario ancora per qualche mese – poteva trattarsi di crisi passeggera – di affidarmi con la preghiera alla Madonna alla quale Lui stesso mi avrebbe raccomandato con la sua preghiera. Ma non superai la crisi e mi portai in treno, non già a casa dei miei genitori, ma a Foggia nel Vescovado.

Mons. Farina mi accolse paternamente. Io gli riferii che se avessi fatto ritorno a casa con la veste talare – i miei genitori che desideravano vivamente che io fossi diventato sacerdote, potevano costringermi o indurmi a proseguire per la strada verso il sacerdozio e che io potevo non avere il coraggio di dissentire. Ritenevo che era necessario che io facessi ritorno a casa con gli abiti borghesi.

Mons. Farina prese atto della situazione che poteva determinarsi e mi rimandò nel Seminario Regionale, mi consegnò tre metri di stoffa di color grigio, una lettera indirizzata al Rettore, chiedendo che mi fosse consentito di indossare l’abito borghese in Seminario e mi consegnò 7.000 lire, quale costo per la confezione dell’abito borghese ad un sarto di Benevento che mi sarebbe stato indicato dallo stesso Rettore.

Così in borghese feci ritorno a Foggia, sempre presso il Vescovado e da Foggia raggiunsi il mio paese.
(L’episodio si commenta da solo)

Lasciato il seminario – dovevo continuare gli studi liceali interrotti e non avevo altra possibilità che di frequentare le scuole pubbliche. Mons. Farina temeva che l’impatto improvviso con il mondo esterno al seminario potesse far disperdere il patrimonio spirituale negli anni da seminarista.

Fu così che volle che io continuassi gli studi presso il collegio religioso di Cerreto Sannita e mi segnalò al Rettore, proponendogli che mi venisse affidato l’incarico di prefetto d’ordine (sorvegliante – responsabile degli alunni delle medie), potevo così beneficiare di una riduzione della retta alla quale partecipava con personale contributo.

——

L’episodio più toccante che resta incancellabile nei ricordi e che ha segnato il mio percorso professionale è quello vissuto dopo il conseguimento della licenza liceale.

Mi scrissi alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Nei primi tre anni di iscrizione avevo appena sostenuto due esami, ma non frequentavo l’Università.

Con Mons. Farina mi vedevo presso l’Arcivescovado, ma di rado. Nell’ultimo incontro a Mons. Farina che mi chiedeva dei miei studi riferii di aver sostenuto solo due dei 21 esami.

Mi consigliò di continuare gli studi presso l’università di Roma ed ivi di frequentare i corsi, assicurandomi un personale contributo economico.

Fu così che dapprima mi ottenne di essere ospitato presso l’Istituto Pontificio Emigrazione in via della Scrofa, dove però non mi era possibile dedicarmi allo studio oltre alle ore 22 (per quell’ora le luci dovevano essere tutte spente). Fui necessitato a trovare un diverso alloggio e fittai una stanza di un appartamento abitato da un’anziana donna. Vi alloggiai per parecchi mesi fino al conseguimento della laurea, conseguita regolarmente al compimento del 4° anno di corso. (Avevo promesso a Mons. Farina che mi sarei laureato entro l’anno).

Per tutto il periodo di permanenza a Roma beneficiai del contributo economico di Mons. Farina che mi veniva recapitato mensilmente a mezzo posta.

Mi sono limitato ad evocare alcuni episodi assai significativi e toccanti che danno la misura dell’alto grado di spiritualità di Mons. Farina e del senso di paternità intesa e volta alla cura premurosa dei suoi figli spirituali che li voleva – siano sacerdoti o laici – come amava dire, missionari in ogni luogo per diffondere l’amore in Cristo e tra gli uomini e con il proprio esempio.
15 nov. 2002

Luigi Genua

Testimonianza di Margherita Farina (sorella di Mons. Farina)

Son l’ultima di nove tra fratelli e sorelle. Di mio fratello Fortunato, secondo di noi tutti, posso dire che m’incuteva grande soggezione, nonostante la Sua amabilità e dolcezza di carattere. All’età di otto anni, stando convittrice nell’Istituto delle Suore Dorotee di Posilllipo, feci la I Comunione per le Sue mani il 28.5.1908. La Superiora ci tenne ad invitare lui, che già sacerdote da 4 anni, riscuoteva grande venerazione. E devo dire che in simili circostanze, la Direzione invitava sempre l’Arcivescovo di Napoli o altri Prelati.

La Sua statura spirituale influì direttamente sulla mia vita, anche perché dimorando nella casa di nostra Madre in Napoli, avevo la fortuna di ospitarlo spesso. Era per lui riservata una stanza ad angolo, che affaccia in Via Tribunali e che già lui abitò da giovane studente e da chierico esterno. Ho avuto sempre da lui conforto e guida nelle varie difficoltà della vita. Ricordo sempre le Sua parola dolce e profondamente sapiente. Aveva una pietà fervidissima. Da Vescovo – quando ospitò da m – più volte l’ho sorpreso vegliare pregando in ginocchio. Nel comodino spesso ho trovato una cintura di catenelle con spine, intrisa di sangue. Questo per parecchi anni. Nell’ultimo decennio di Sua vita, no!

Fortunato era anche semplicissimo nel suo tenor di vita e direi mortificato nel cibo ed in tutte le comodità che poteva offrire l’ambiente familiare. Era molto conosciuto qui nel rione: quando morì molti mi hanno detto che si recava personalmente da studente a visitare qualche famiglia povera, portando aiuti in danaro e viveri. Conservo una bella lettera indirizzatami da Foggia, ch’Egli mi scrisse quando si ristabilì, dopo una lunga permanenza in casa mia a Napoli, costrettovi da una infermità (un mese a letto per polmonite).

Ricordo anche e son rimasta profondamente impressionata che le ultime Sue parole furono: “Madonna mia, Madonna mia non mi lasciare, finché non mi hai consegnato al Tuo Divin Filgiuolo Gesù!”. Pronunziò questa invocazione con lo sguardo fisso, come se avesse visto qualcosa di reale dinanzi a sé.
Napoli, 23.3.1960

Margherita Farina Strigari

 

Testimonianza di Maria Caterina Roseti, vedova di Romeo Prof. Francia,
mamma di D. Vincenzo Francia

Ricordo un piccolo episodio sulla vita di S. Ecc. Mons. Fortunato M. Farina, durante la mia permanenza, come educanda, nel Collegio delle Suore Marcelline di Foggia. Avevamo come professore di latino, Vincenzo Tangaro, grande latinista però era massone per cui fu allontanato dall’insegnamento nelle scuole statali, ma le nostre Suore, tanto buone, lo accolsero nel nostro Istituto.

Ogni anno nel mese di maggio vi era la cerimonia della 1a Comunione delle ragazze e in quella ricorrenza, come in altre festività, non mancava la presenza dell’Illustre nostro Vescovo Farina.

Eravamo nel 1929-30 (almeno penso che la data sia questa). La figlia del nostro Prof. Tangaro (massona) doveva fare la 1a Comunione perché frequentava la scuola delle Suore, con tante altre ragazze.

Eravamo tutte curiose circa il comportamento del nostro Prof. per questa cerimonia. Tutto si svolse con massima preparazione come era usanza delle nostre Suore. Noi alunne di Tangaro guardavamo il nostro Prof. con molta curiosità, perché non sapevamo la sua reazione il giorno dopo, durante la lezione.

Entrò, si sedette e disse queste parole che ricordo ancora con molta lucidità: “Signorina, ieri mi avete visto alla Messa nella vostra cappella, ebbene vi confesso che quella figura del Vescovo che celebrava, non era la solita di qualche altro prete, ma aveva qualche cosa di sublime, di celestiale e nel momento in cui ha sollevato l’Ostia e il Calice, sembrava che si sollevasse anche Lui. La mia impressione sul Vescovo Farina resta imperitura nella mia memoria per aver incontrato un essere superiore”.
Biccari, 22 settembre 1982.

Maria Caterina Roseti

 

Testimonianza di Mattia Farina (fratello di Mons. Farina)

Sono stato in Collegio con Lui otto anni. Entrammo il 24 –X-1888. Mio fratello allora aveva sette anni e mezzo, e vi rimase fino al Luglio 1896, epoca in cui conseguì la licenza liceale e mio Padre ci ritirò dal Collegio.

Fortunato frequentò il 2° e 3° liceo in Via Atri, da esterno. Da quando entrò in Collegio fu esempio a tutti di pietà e di diligenza nello studio. Sempre il 1° della classe e della Camerata. Manifestava sin da tenera età l’inclinazione allo stato ecclesiastico. Con un compagno, Marcello Origlia, di Cava dei Tirreni, figlio di un celebre avvocato, si divertiva a costruire altarini durante le ricreazioni, imitando le sacre funzioni.

Per la sua spiccata pietà, negli ultimi anni di collegio, fu Prefetto addetto ad intonare le preghiere della Congregazione mariana. Le sue pratiche di mortificazione nascoste concorsero ad indebolire il suo organismo. Di qui quella infermità che lo colpì nell’agosto del 1899 e per cui tanto penarono i miei genitori. Un celebre medico, il Prof. Gaetano Paolucci, prescrisse l’aria di Posillipo. Le cure ed il clima di Napoli fecero rifiorire la Sua salute.

Aveva già conseguito ottimamente la licenza liceale. Ebbe a compagno di maturità classica quello che fu poi il Card. Luigi Maglione. S’iscrisse all’Università alla facoltà di lettere. Lo dirigeva nello spirito il santo Can. Gioacchino Brandi, che gli faceva anche lezione di S. Teologia. Fu ordinato Sacerdote nel Settembre del 1904. Mi è stato sempre di esempio per la Sua vita virtuosa oltre l’ordinario.

Nelle vacanze del 1897 andai con Lui in pellegrinaggio a Lourdes e ricordo la Sua preghiera quasi estatica dinanzi alla Grotta prodigiosa. In quell’occasione compose anche dei versi; dedicati alla Madonna ed a S. Bernardetta.

Ricordo anche che nelle vacanze del 1898, con un gruppo di Universitari Cattolici di Napoli, partecipammo al Congresso dei Cattolici Italiani a Milano. Mio fratello li contrasse amicizia con l’On. Longinotti di Brescia, l’Avv. Brosadola della Prov. di Udine ed altri. Rimase molto ammirato del Card. Ferrari.

Nel 1900 Fortunato indossò l’abito talare. Non fu in Seminario ma studiò da Chierico esterno. Si addottorò all’Accademia Teologica Arcivescovile di Napoli. Il 15 Agosto indossò l’abito talare, nell’anno 1900 nella chiesa Parrocchiale di Baronissi

18 Settembre S. Ordinazione Anno 1904.

19 Settembre cantò la prima Messa nella Chiesa dei Frati Minori di Baronissi. Fece il discorso il P. Rillo.
Napoli 23 – 3 – 1960

Mattia Farina

 

Paolo Carta
Arcivescovo emerito di Sassari

Cagliari 5 giugno 1992

Testimonianza
Per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione
di Mons. Fortunato Maria Farina, già Vescovo di Foggia

Con viva soddisfazione ho appreso che il Consiglio Presbiterale di Foggia ha preso la nobile iniziativa di dare l’avvio alla Causa di Beatificazione e Canonizzazione di Mons. Fortunato Maria Farina; iniziativa accolta dall’Arcivescovo Mons. Giuseppe Casale con l’Editto del 6 marzo 1991.

Sono lieto, pertanto, di rendere la mia testimonianza, benché limitata dalla mancata conoscenza personale. Eletto Vescovo di Foggia, feci l’ingresso il 12 giugno 1955. succedevo a Mons. Giuseppe Amici, che aveva assunto il governo della diocesi dopo la scomparsa di Mons. Farina avvenuta il 20 febbraio 1954.

Io arrivai, pertanto, a distanza di poco più di un anno, quando ancora vivissima era la sua memoria tra il Clero e i fedeli della diocesi. Fui subito profondamente impressionato ed edificato dal fatto che unanime era il giudizio sulle sue virtù e la sua missione pastorale.

E il giudizio da tutti veniva espresso così: “Mons. Farina era un santo!”. Sacerdoti a lui molto vicini mi parlarono della sua elevatissima spiritualità, per cui mi formai la convinzione che fosse stato un autentico Mistico e insieme ottimo Pastore per la santificazione del suo Clero e del suo popolo.

Mi sentii allora in dovere di rendergli sommo onore a lui elevando nella Cattedrale – con le oblazioni di pie persone – quel monumento e sarcofago che tutti ammirano

Tra le Opere da lui realizzate ho apprezzato soprattutto l’Istituto della Santa Milizia di Gesù.

Ottenuto il “Nihil Obstat” dalla Congregazione delle Cause dei Santi, ora auspico che quanto prima si proceda all’apertura solenne del Processo.

Ottima considero la nomina per l’Ufficio di Postulatore di Mons. Luigi Giuliani, del quale ho alta stima per lo spirito sacerdotale, per la preparazione giuridica e la documentazione nei Cenni biografici:

+ Paolo Carta

Testimonianza di Onofrio Di Stasio

TESTIMONIO circa la Vita e le Opere di Mons. Don FORTUNATO FARINA

Il sottoscritto, ONOFRIO DOMENICO GERARDO DI STASO DI BRANA, nato in Montevideo, Uruguay, il 24 Gennaio 1901, con domicilio in Avenida Sarago N° 1275 di questa città, sposato con Maria Luisa Ferrari Mazza, pensionato bancario, con quasi 35 anni di lavoro nelle Banche Francese & Italiana per l’America del Sud e Banco del Lavoro Italo – Americano con carica di cassiere capo e procuratore di quest’ultimo presenta questa dichiarazione giurando davanti a Dio, a Gesù, alla Vergine Maria, ai Santi, Arcangeli, Cherubini, Angeli che dice la verità e niente altro che verità circa la vita e le opere del nostro amato Sac. Monsignore Don Fortunato Farina.

Siamo negli anni 1912/13 e 14 e stiamo nel Seminario Interdiocesano di Salerno in via Rotesi dietro alla Cattedrale di Salerno (San Matteo) studente seminarista del secondo anno ginnasiale e professori di allora i Sac. Giuseppe Marchetti e Coppola mentre altri non ricordo.

Io mi trovavo in detto Seminario fin dall’anno 1910 ossia appena dopo pochi mesi di essere arrivato con i miei nonni da Montevideo (Uruguay) e lì ho studiato fino all’anno 1914 quando l’Itala entrò in guerra ed il Seminario fu adibito ad ospedale.

Frattanto negli anni passati in Seminario avevamo una venerabile persona, giovane, esempio di umiltà, figlio di un’aristocratica famiglia di Baronissi (Salerno): mi riferisco alla personalità di Mons. Don Fortunato Farina.

Sacerdote di una vita esemplare, nostro confessore, amato consigliere penitente da noi conosciuto perché si diceva allora che egli si flagellava con il cilicio, organizzatore della Gioventù Cattolica e che da lui sempre i giovani studenti in generale ricevevano parole di conforto, di aiuto e di buon esempio. Bastava vederlo in Salerno, quando egli usciva, sempre con lui andava una schiera di giovani studenti, ai quali egli sempre aiutava con libri, danaro,e sempre li incitava affinché fossero esempio nella scuola e nella società.

Egli sempre ci parlava della Madre di Gesù e fu così che un giorno ricordandomi di una sua frase che spesso ci diceva: “Oh Vergine Maria, se un giorno io avessi a perdermi deh riconducetemi a Dio”; questa frase rimase scolpita nella mia mente e fu così che un giorno io mi punsi un dito e col sangue scrissi le parole che Mons. Farina sempre ci ripeteva.

Molte volte da Montevideo scrissi ad amici per avere l’indirizzo di Mons. Farina al quale amavo sinceramente per i suoi buoni consigli ed avrei voluto inviarle una mia lettera di ringraziamento ricordandogli l’epoca passata.

Mesi or sono ricevo un giornale da Salerno sul quale parla di Mons. Fortunato Farina ed io ho provato una grande gioia sapere qualcosa, ma molto afflitto e perplesso quando lessi che egli da circa 12 anni era passato a miglior vita.

Ho meditato un poco pensando ai santi consigli che seppe dare alla gioventù salernitana e poi, come peccatore ho recitato una preghiera per la Sua Anima che tanto bene ha fatto a noi tutti incamminandoci per la via del bene.

Con il massimo rispetto mi dichiaro ai Loro Ordini
Dev.mo
Onofrio Di Stasio

 

Testimonianza di Orsolina Farina (sorella di Mons. Farina)
Agosto 1956

Ben poco posso dire della fanciullezza ed adolescenza vissuta con il mio amato fratello Monsignor Fortunato Maria, morto a Foggia il 20 febbraio sabato, 1954, perché rinchiusa in collegio per la nostra educazione, in età dei sette anni in su (Mattia e Lui dai Padri Gesuiti a Napoli, ed Aurelia ed io dalle Dame del Sacro Cuore a Portici). Solamente nei primissimi anni di vita, tra i nostri cari genitori, nonno e zio e prozia e bambinaia francese, e, nelle brevi vacanze, di ogni anno, ci fu dato passare i giorni fuggevoli insieme. Eravamo quattro i più grandi ed insieme poi entrammo in convitto. Con Fortunato, come carattere e forse fisico più io ci somigliavo e si andava d’accordo, e così, il primo, Mattia con la sorella Aurelia. Io però non avevo quelle note caratteristiche di bontà ed ubbidienza che spiccavano in Fortunato sin dalla più tenera età, benché vivacissimo, sincero, altruista. Amava tutti di famiglia, i genitori, la mamma sua terrena e la Madonna! Ovunque la sua immagine lo faceva sorridere e bearsi in contemplazione. Recitava l’Ave Maria, e chiedeva in silenzio…Cosa chiedeva? In una camera da lavoro ove in cornice la mamma aveva messa un’immagine della Madonna dei Sette Veli, lui andava spesso a contemplare e meditare sul mistero di quel viso coperto, che tanto l’attraeva. (Più tardi Vescovo di Troia e Foggia, ricordò a me quell’immagine ripetendomi! Chi mi doveva dire che sarei stato Vescovo di Foggia?).

Nelle vacanze e specie quelle autunnali, più lunghe, con un nostro prozio a nome Fortunato, esimio lavoratore e uomo bravissimo, indimenticabile, si andava in campagna, noi quattro (Mattia, Fortunato, Aurelia e Lina) e quasi sempre ad una collinetta chiamata Uliveto a mezz’ora da casa, terreni che lo zio faceva coltivare ed ove tanti varii giuochi preparati a farci divertire come altalena caroselli ecc. Questo nostro amatissimo zio, si svegliava all’alba e la prima cosa recitava il Santo Rosario alla Madonna (ce lo diceva lui) di cui era devotissimo (e ne venerava una bella immagine), indi si faceva il caffè e poi di filato in campagna. Quando noi eravamo in vacanza, aspettava la nostra alzata, e dopo la prima colazione, via con lui all’Uliveto. Il più brioso, sempre il nostro Fortunato. Di corsa ad una cappellina rustica in mezzo della collina Oliveto, che nostro zio aveva fatto costruire con mattonelle rappresentante la Vergine Addolorata. Dopo aver pulito, fatto lavare da noi il poggiolo (se sudicio) e l’immagine cara, di adornarla di fiori e cantare e far cantare canzoncine alla Madonna. Come era felice se alle volte la mamma ed altri si univa a questa gita ove per meta l’immagine della Vergine. Oltre ai tanti giuochini, nella casetta colonica lo zio aveva preparata (sempre ben fornita) la cameretta per le nostre merendine. Fortunato più adolescente, più consapevole della sua età di studente e della sua volontà di portare tutti ad amare Gesù e Maria, radunava altri giovanetti di qualsiasi ceto, e, della sua età più o meno, e via per i nostri monti, con la comitiva, capitanata da lui, a cantare inni alla Madonna e per primo, sempre, Evviva Maria e chi la creò. Lo ricordano ancora le nostre vecchiette e poi le mamme di sacerdoti e altri giovani che da lui impararono ad amare Maria. I dispersi non dimenticarono il giovanetto umile che in tutti vedeva l’immagine di Gesù.

Golosetto quanto me, ma sincero sempre; appena la mamma scopriva la mancanza di dolci che nascondeva a non farci trovare (nelle grandi feste e nei battesimi dei fratellini) e ci chiedeva “chi ha preso?” sempre pronto ad accusarsi lui e difendere me che forse ne avevo mangiato di più. Di quei dolci presi il migliore, portava sempre ad una povera vedova, (morti anche i suoi figli) che la mamma teneva in casa per i lavori più umili e di aiuto alla bambinaia e “prendi” insisteva, (al suo rifiuto) “alla mamma già ho detto che l’ho preso io e mi ha perdonato”.

Con l’aiuto della mamma che assecondava i suoi sani desideri aveva eretto una cappellina, meglio altarino ove troneggiava un’immagine del Cuore di Gesù, in una cornice bianca ed una minuscola statuetta di N.S. del Sacro Cuore che gli avevo regalato io, e che tanto sciupata dal tempo nel 1943 (quando io con la guerra perdetti la casa e la cappella ove tante volte aveva Lui celebrato e tutto mi aveva donato un bel quadro ad olio del Cuore di Gesù ed una bella statua di N. S. del Sacro Cuore) mi regalò la minuscola e sciupata statuetta della cappellina della nostra fanciullezza e dicendomi commosso parole di conforto, mi abbracciò.

Avanti quell’altarino della fanciullezza si pregava e Lui a suo modo celebrava la Messa e noi sorelle, specie Aurelia ed io pronte a servirla pronte a pregare con Lui, nei casi avversi o fortunati, pronte a pregare per i Genitori, specie per la mamma se la si vedeva triste o mortificata da altri di famiglia per le nostre mancanze e diciamo birichinate, non compatite che dal nostro vecchio zio Fortunato. Due volte dall’Uliveto a casa perché mi ero fatta male una volta, ed un’altra per la puntura di un’ape, mi riportò seduta sulla sua spalla a lui abbracciato e rassicurandomi paroline buone scherzava e poi… cantava un inno alla Madonna.

Più avanti negli anni trovava che io mi lasciavo troppo prendere dal sentimentalismo e lui a correggermi coi soavi consigli ed anche con i suoi detti spirituali. Una volta da Napoli nel 1902, lui studente a Napoli ed io a Baronissi ad una mia lettera richiedendo un ramoscello di fiori artificiali ad una nostra vecchia maestra di francese mi rispondeva (come da copia che accludo) e chiamandomi sentimentalissima che era meglio le cinque lire a lui (per darle in elemosina) ed io forse ad ornare un’immagine della Madonna!

Fu Lui a benedire il mio matrimonio, il primo matrimonio in famiglia. Fu lui a preparare dopo otto anni, ad una morte rassegnata, il padre dei miei figli, che lo venerava e sempre lo chiamava al suo capezzale, sempre e specialmente al grave distacco. Da lui con edificazione volle ricevere i santi sacramenti. E, mio fratello ha ricordato sempre quella morte edificante portandola per esempio anche nell’ultimo periodo della sua vita.
Restata vedova non mi allontanò restando in casa con me ed i miei figli fino al 1919 perché il 10 Agosto 1919 consacrato Vescovo di Troia. Padre spirituale al Seminario di Salerno poi Parroco a S. Agostino, sempre in casa mia quanto affetto paterno, quanta compassione. Con la sua partenza tutto mi venne meno!

Cinque anni scorsi in lui la vita di mortificazione, penitenza e carità infinita, unita ad umiltà profonda. Nel comodino della sua camera da letto ebbi a trovare nascosti ( e non parlai per tema di offenderlo) oggetti di penitenza quali cilizi fatti di cordoncella nodosa a strisce di ferro con punteruoli. La sua biancheria insanguinata parlava chiaro di ciò che facesse di questi arnesi.

Fondò in Salerno il Circolo Giovanile Cattolico e infaticabile come Direttore e Padre Spirituale e poi come Parroco d S. Agostino. Il fanciullo il giovanetto goloso era scomparso. Tutti difetti restati solo nella di lui sorella. Mortificazione e sempre mortificazione: ogni dolore poi, ogni confetto, caramelle e cioccolatino che gli veniva offerto era per i miei figli, per i suoi giovani. Anche in tavola, prendeva pure la sua parte, ma dopo il turno di conseguenza, a passarla a me o a chi dei miei figli sedeva a lui vicini, la scusa, sorridente ripeteva “è troppo per me”.

Consacrato Vescovo il 10 Agosto 1919, saltuariamente fu ancora presso di me fino alla sua partenza nell’ottobre. Fu il distacco che formò il primo gran vuoto del mio cuore, dolente di non aver ascoltato in tutto i suoi savi consigli. Fui spesso a Troia con i miei figli piccolissimi e con l’istitutrice tedesca che avevo per la loro educazione, e che tanto stimava mio fratello (era una fervente cattolica di Monaco di Baviera). Dopo avere chiuso in collegio i miei figli vi ritornai ancora, e a Troia ed a Foggia ove ebbi il gran dono da Dio, primo di assisterlo a Troia in una sua grave infermità nel 1930 da rimettersi così dovendo andare a fine anno a Roma in pellegrinaggio per l’anno Santo e poi a Foggia negli ultimi tre mesi circa della sua vita. Assistetti alle sue funzioni da Vescovo fino al 28 Dicembre 1953 per la partenza di un giovane sacerdote missionario gesuita e poi al suo Santo martirio per il distacco dai suoi figli diletti che la Madonna volle a Foggia, come Lui desiderava, il 20 Febbraio 1954.

Dopo la sua morte fui presa da gravissima malattia e per sua intercessione, chiesta la grazia da un mio figlio in una visita alla sua tomba, fui guarita, e posso dire miracolosamente data la mia età (allora circa 70 anni e con diabete da oltre trent’anni). Oggi come dalla sua morte, forte sento la sua protezione in ogni contrarietà fisica e morale, tanto da potere avere un po’ di pazienza e rassegnazione in attesa di poterlo raggiungere nella Patria Celeste.

Questo quanto ricordo e posso dire dell’angelo benefico della mia vita.

Lina Farina

(N. d. r.:In data 24 Ottobre 1962 in una lettera inviata a Don Mario De Santis Lina (abbreviaz. di Orsolina) Farina dà questa testimonianza sul fratello Vescovo

Reverendo e caro Don Mario
Rispondo alla vostra del 20 c.m. Ho gradito immensamente anzitutto per le buone notizie circa la vostra salute e poi nel vedere che veramente il nostro Santo Fortunato ci aiuta giorno per giorno; a me tanto nel darmi la gioia di sentirvi da voi che finalmente avete potuto riprendere a scrivere la vita di lui.

Vi raccomando fate presto perché io, con l’aiuto Divino, se sono ancora in vita di giorno in giorno vedo che le forze mi mancano e la vista mi vien meno.

Mi meraviglio come gli opuscoli con il discorso di Mons. Calabria non siano stati spediti anche a Benevento. In pari data vi spedito al vostro indirizzo un pacco di quelli che l’onorevole De Martino mi fece tenere e altro ho mandato a suor Concettina Pirro a Foggia. Le notizie da darvi circa il periodo che Fortunato passò a Posillipo, quello che io ricordo e abbastanza bene fu dopo aver conseguito la licenza liceale che, dato il suo deperimento, i medici consigliarono l’aria di Posillipo, assoluto riposo e super nutrizione. La mamma stiede (sic!) sempre con lui in quel periodo e papà, per le sue occupazioni amministrative a Baronissi, lo veniva a trovare saltuariamente. Delle sorelle io, già uscita dal collegio avevo tre anni di meno di lui e di carattere a lui somigliante non certo come virtù, amavo restare anch’io a Posillipo e tenere, il più possibile, compagnia a lui e la mamma. Non studiava perché, ripeto per consiglio dei medici aveva bisogno di assoluto riposo e, siccome non amava punto l’ozio, pregava, leggeva e per passare il tempo, volle farsi insegnare dalla mamma il lavoro all’uncinetto e così fra i lavori fece uno sciallo ad una vecchia cameriera di casa Farina a nome Palma. Venivano a trovarlo un sacerdote a lui caro, cioè il canonico Finizio e il Prof. Domenico Russo, suo intimo amico.

A quell’epoca, più o meno, cambiò la sua decisione di farsi Prete più che Gesuita, come era suo desiderio, e questo, credo, per accontentare papà.

Il canonico Finizio è morto da moltissimi anni e così l’amico Domenico Russo che laureato in Lettere si trasferì dove si sposò ed ebbe dei figli, ed uno fu Padre Gesuita che non volle prendere la cittadinanza italiana, è rimasto lì a godere un ottimo nome nella compagnia di Gesù. Ad ogni modo parlerò con Don Paolo Vocca chissà potrà darvi notizie più precise del come si svolse la vita di Fortunato dopo questa malattia. Mi ricordo ancora che vestì l’abito da seminarista benedetta dal nostro Parroco con una bella funzioncina alla Parrocchia di Baronissi. Seguì gli studi di Teologia a Napoli sotto la guida di Padre Brandi, suo Padre Spirituale, ed altri insigni Professori e contemporaneamente frequentò l’università per la laurea in Lettere che non so se prese prima di essere ordinato Sacerdote o l’anno dopo. Ad ogni modo vi ripeto ne parlerò al Can. Don Paolo Vocca.

Oggi S. Raffaele, il mio pensiero è maggiormente rivolto a S. Eccellenza Mons. Calabria. Tanto ho pregato per lui e raccomando a voi porgergli i miei rispettosi ed affettuosi auguri. Gradite i saluti delle mie sorelle, di Nicola e Gennarino, anche lui abbastanza infermo e con la vista in condizioni peggiori della mia. Da me affettuosità infinite e uniamoci nella preghiera raccomandandoci di tutto cuore al nostro Fortunato.

Lina Farina

Testimonianza di P. Ottavio Liberatore
(in una lettera inviata alla Sig.ra Orsolina Farina da Hong.Kong il 14-9-1960)

Distintissima Signora,

Ella mi deve scusare se solo oggi…

Io non ho nessun scritto di Monsignor FARINA in mia mano, quelli che conservavo gelosamente furono dai giapponesi bruciati quando occuparono Hong – Kong.

Conobbi Don Fortunato, all’età di 8 anni facendo egli un’eccezione per me perché potessi frequentare il Circolo S. Gabriele dell’Addolorata, insieme ai miei due fratelli maggiori Guido e Paolo.

Ciò che mi colpiva di più in Lui era la Sua mansuetudine e la Sua purezza.

Egli ebbe grande influsso nella mia formazione giovanile, e quando essendo impiegato in banca, ebbi impressione di essere chiamato alla Vita Missionaria mi rivolsi a Lui per conoscere se avessi una vera vocazione.

Egli che aveva sempre diretto la mia anima, si affrettò a rispondermi, a visitarmi appena ebbe occasione di venire a Napoli.

Gli aprii il mio cuore e mi parlò con entusiasmo della bellezza della vita Sacerdotale confidandomi che anche Lui desiderava essere Missionario.

Mi consigliava di andare in Africa, per la cui conversione lavorò non poco, e cercai o per dir meglio tentai di seguire il suo consiglio, ma eventi esteriori, certo voluti dalla Divina Provvidenza, mi condussero al Divino Pontificio Istituto delle Missioni Estere, e fui destinato a quella bellissima Missione di Hong – Kong.

L’amore che porto alla Madonna è dovuto certamente in origine alla mia educazione familiare, profondamente cattolica e mariana, ma nessuno di quelli che ebbero la fortuna di conoscere Don Fortunato può negare che tale amore e devozione filiale verso Maria fu accresciuto e moltiplicato dall’esempio di un tale Maestro, che non tralasciava alcuna occasione per inculcarci venerazione alla Madre di Dio e nostra Signora del Sacro Cuore, è per me, e credo di non sbagliare se affermo anche per noi tutti del Circolo Giovanile Salernitano, il ricordo più tenero e più dolce e soave, della nostra giovinezza.
Preghi per me Suo in G.et M.

Dev.mo
Fr. O.M. Liberatore

Rionero in Vulture (Potenza), 2 febbraio 1955

Rev.mo Sig. Canonico D. Mario De Santis
Seminario Regionale
Benevento

Rev.mo Sig. Canonico,

qualche mese fa la Sig.ra Falvella Farina mi comunicava che V.R.a si accingeva a scrivere la vita dell’indimenticabile e compianto di lei fratello Mons. Fortunato; e ben conoscendo essa i rapporti di fraterna amicizia che da oltre un cinquantennio mi legavano al dilettissimo scomparso, mi interessava perché io, nelle mie possibilità, apportassi al lavoro di V.R.a qualche contributo in notizie e ricordi della Sua età giovanile.

Risposi alla Signora che ben volentieri avrei fatto del mio meglio per aderire alla Sua richiesta, prevenendola, però, che non avrei potuto attendervi con sollecitudine; ma poiché contro ogni mia buona volontà non mi è stato possibile finora mantenere l’impegno, sento il dovere di fare le mie scuse del grande, per quanto involontario, ritardo, che spero non sarà attribuito a trascuratezza da parte mia.

Pertanto, pur desiderando di essere utile a Lei che si è assunto il nobile compito di far degno omaggio alla venerata memoria di Mons. Farina, tracciandone l’intemerata e santa vita, non so se il modesto mio apporto potrà accontentarla, ritenendo impari la mia capacità di coadiuvar Lei nella sua opera e nel raggiungimento del fine che con essa si prefigge.

Nel lontano autunno 1900, entrando a far parte del Circolo Universitario Cattolico di Napoli, ebbi la ventura di incontrarmi col giovane Fortunato Farina, socio anch’egli di quel Circolo e già incamminato nella via del Sacerdozio. Fui subito colpito dall’angelica figura di quel giovane e ben presto mi resi ragione dell’unanime attaccamento dei Soci alla Sua persona, che insieme al più profondo rispetto ispirava in tutti noi fiducia e ammirazione per le sue preclari virtù. Non mi occorre far notare a V.R.a , poiché Ella può ben intuirlo, quanto bene potesse arrecare la Sua presenza tra giovani usciti appena dalle proprie famiglie e lanciati nel mondo in un momento tanto delicato della loro esistenza. Non posso d’altra parte nascondere che i più perseveranti nel coltivare la preziosa amicizia del giovane Chierico eravamo in tre: Giulio Milone, entrato in seguito nella Compagnia di Gesù e morto santamente in ancora giovane età; il Prof. Ludovico De Simone, zelante animatore di cristiane iniziative, ed io: terzo e senza dubbio il meno degno delle delicate attenzioni prodigatici dal provvidenziale amico.

Questo breve accenno potrebbe sembrare non attinente all’obbiettivo cui Ella mira; ma non ho creduto tralasciarlo pensando di rievocare un lontano episodio dal quale si possa dedurre come, fin dai giovani anni, in Mons. Farina ardeva già un fervore operante al servizio di Dio e al bene delle anime: fervore e opere che, come V.R.a sa meglio di me, furono il programma costante di tutta la Sua vita. Nei miei particolari riguardi non so se il buon seme della parola di Fortunato Farina sia caduto in fertile terreno; comunque ho sempre tratto gran conforto dai Suoi consigli, esortazioni e rincoramenti, ispirati sempre a tanto spirito di carità da non poter mai ravvisare in essi neanche il più velato rimprovero, anche se meritato; ma soltanto paterno incitamento a seguire la buona strada e incoraggiamento a sollevare fidente l’animo a Dio e alla nostra Madre Celeste.

Ritornato in famiglia, dopo il compimento dei miei studi universitari, continuarono per lungo tempo i nostri rapporti epistolari, e se il tempo me lo consentisse e, più che il tempo, l’età e il forzato riguardo che devo agli occhi, farei volentieri ricerche nel mio carteggio per rintracciare qualche scritto che potessi ritenere di maggiore interesse per il lavoro di V.R.a . d’altra parte non temo di sbagliarmi affermando che tutte le lettere dell’incomparabile amico erano improntate a Spirito di carità e di apostolato, che affiorava sempre anche nelle edificanti sue conversazioni.

Quando la nostra corrispondenza si diradò e si diradarono anche i nostri incontri, perché entrambi impegnati, in campi diversi, nelle proprie preoccupazioni e occupazioni, la nostra vecchia amicizia rimase intatta, non solo, ma si rafforzò e come ebbe a dire lo stesso Mons. Farina, si perfezionò. Ne sono prove le Sue ultime due lettere a me dirette, seguite, dopo tanti anni, alle molte della nostra giovinezza. In esse ho potuto ravvisare lo stesso zelo, lo stesso interessamento e attaccamento alla mia povera persona, da poterle ritenere come la sintesi delle antiche esortazioni, scritti e verbali; e poiché di poco, precedettero la sua santa fine, acquistano tutto il valore di un testamento spirituale. Oltretutto esse sono ancora un chiaro esempio di umiltà vera, altra splendente virtù, tra le tante che ornavano quell’anima eletta. Le invio le due lettere che ho potuto agevolmente rintracciare, perché recenti, desiderando farne prendere visione a V.R.a , sicuro del suo gradimento.

La grande carità di Mons. Farina, come Ella sa e io ho avuto occasione di sperimentare, non si limitava soltanto alla guida delle anime; ma anche gli affanni e i dolori altrui trovavano la più viva e umana comprensione nel suo cuore. Nel maggio 1905, nell’apprendere la morte del mio diletto genitore, partì immediatamente da Baronissi, per portare conforto a me e alla mia famiglia in Rionero, celebrando varie Sante Messe sulla tomba del nostro caro; né fu meno sensibile ad altre mie sciagure quando, molti anni dopo, il Signore volle ancora provarmi chiamando a Sé la giovane mia compagna e, a distanza di cinque mesi, anche il ventiseienne nostro primogenito.

Tra i ricordi che mi legano alla cara persona di Mons. Farina, uno mi è stato sempre particolarmente caro e vivo nella mente; e lo è più che mai ora che la mestizia di oggi copre la letizia di un tempo. Il 19 settembre 1904 ebbi la grande consolazione di assistere alla prima Messa del novello Sacerdote D. Fortunato Farina, recandomi con pieno contento e compiacimento dei miei genitori, a Baronissi, dove, tra i numerosi intervenuti, mi ritrovai insieme ai fedeli amici della prim’ora: tutti e tre presenti alla indimenticabile cerimonia. Era quindi naturale che da qualche tempo sorgesse in me la speranza di partecipare, col Divino volere, anche alla celebrazione del cinquantenario di quella data, approssimandosi la giubilare ricorrenza. In tale circostanza non avrei avuto accanto a me il caro Giulio Milone che, come Le ho detto, da parecchi anni aveva preceduto nel Cielo il degno suo confratello. Ma al giungere del tanto desiderato tempo19 Settembre 1954, neanche Mons. Farina non era più di questa terra e, come ebbe a dirmi un Cappuccino mio amico, a cui manifestavo il mio vivo rammarico, “Mons. Farina aveva meglio e più solennemente celebrato in Paradiso il Suo Giubileo Sacerdotale”:

La sera del 21 febbraio dello scorso anno, trovandomi di passaggio alla Stazione di Foggia e cedendo alle ripetute affettuose insistenze del Venerato Vescovo, mi volli fermare per abbracciarlo, tanto più che da una comunicazione della Sig.a Orsolina di pochi giorni prima, con molto rincrescimento avevo saputo che Egli era infermo. E quantunque un triste presentimento si annidasse nel mio animo, grande e dolorosa sorpresa provai, entrando in città, nel vedere le mura tappezzate degli annunzi della morte del Pastore, avvenuta la sera precedente. Ne fui costernato e la sera stessa potetti pregare per quell’anima benedetta, visitando la cara Salma già composta in Cattedrale. E il successivo giorno 22, non a una solennità giubilare fui presente, ma ai solenni funerali del Vescovo di Foggia nell’unanime dolore del dilettissimo Suo popolo. Solennità, del resto, anche quella, come può essere il transito di chi ha lavorato sempre pel Signore e nella sua pace si addormenta .

Rimango intanto dubbioso che quanto ho potuto e saputo comunicare a V.R.a possa giungerLe tempestivamente e meriti la Sua attenzione nei riguardi dell’opera che verrà fuori dalla Sua penna: la più adatta a un lavoro, di prevedibile grande interesse, che ha per soggetto l’incomparabile figura del Santo Vescovo.

Con molti ossequi Le bacio la mano.

Dev. mo
Pasquale Giannattasio


Baronissi, 28 Settembre 1953

Mio carissimo Pasqualino,

Sono quattro anni compiuti che mi assilla nel mio animo il rimorso di non averti scritto neppure un rigo. Da quando lasciai Rionero dopo il bellissimo Congresso Eucaristico, colà organizzato e celebrato così bene dall’ottimo Mons. Domenico Petroni, Vescovo di Melfi. L’assillo diviene, col decorrere del tempo, sempre più forte e allora ho risoluto di farla una buona volta finita, sotto gli auspici di S. Michele, di cui domani facciamo la commemorazione solenne.

Ho preso adunque coraggiosamente in mano la penna ed eccomi a Te con lo stesso affetto santo, che ci unì nella nostra prima giovinezza e che il Signore si è compiaciuto, attraverso il prolungato silenzio rendere più puro e più santo, per sua divina bontà e misericordia, perché io potrei dire di essa che non sono stato buono, durante la mia vita; che a deformare il più delle volte, i disegni di bene, che Egli mi affidava ad eseguire con la sua santa grazia e con l’essere più diligente nell’adempiere i miei doveri di corrispondenza epistolare.

Confido nel tuo compatimento e nel tuo perdono. Tornai da Rionero tanto contento e soddisfatto della buona riuscita del Congresso e poi tanto confuso e riconoscente per la tanta cortese e signorile ospitalità da te apprestatami e per tutte le gentilezze e le fraterne cure di cui mi colmasti. Pregai di gran cuore, Iddio a ripagarti il mille per uno per tutto quello che avevi fatto per me, ultimo dei suoi sacerdoti e, per sua misericordia soltanto, anche ultimo fra i Vescovi della sua Chiesa.

Non posso dilungarmi tanto perché il mio tempo è sempre limitato: ma ora non trascurerò di tenermi in corrispondenza con te.

E poi desidererei tanto se tu, come mi promettesti, venissi qualche volta da me ogni tanto a trattenerti un pochetto e a Foggia e anche qui, quando sono a Baronissi. Io però non potrei trattarti come tu mi trattasti, more benedictinorum, ma soltanto more franciscanorum.

Fui tanto contento poi della grande consolazione che mi desti, di amministrarti io stesso la S. Comunione, quando celebrai in casa tua, nel tuo oratorio, in suffragio dei tuoi genitori e di tutti i tuoi cari defunti, e quando recitammo insieme il Rosario, in occasione della solenne processione di Gesù Sacramentato.

Sono a Baronissi, ove conto trattenermi un’altra quindicina di giorni (non avere paura, c’è poca gente, soltanto qualcuno dei miei fratelli, che ti rivedrebbero con piacere); a Foggia poi sono con il mio segretario e qualche altro sacerdote. Scrivimi presto dicendomi che mi hai dato l’assoluzione per il grave fallo di quattro anni di silenzio, dopo la tanta signorile e potrei dire fraterna ospitalità datami a Rionero. Ti abbraccio e ti benedico. Sempre tuo aff.mo in G. C. Fammi sapere il tuo recapito presentemente.

Fortunato M.a Farina
Vescovo di Foggia

Foggia, 15 ottobre 1953

Carissimo Pasqualino,

Sono già diversi giorni che ho ricevuto la tua lettera e perdona se ora soltanto do ad essa riscontro.

Mi ero proposto di risponderti sempre, se non proprio a rigore di risposta, almeno entro le prime 48 ore dal recapito, ma non vi sono riuscito: almeno per questa prima volta, spero e mi riprometto assai meglio per l’avvenire. Tuo fratello mi rispose immediatamente e mi disse che tu allora ti trovavi a Rionero.

La tua lettera l’ebbi a Baronissi, quando però ero in procinto di partire per Foggia, ove sono tuttora. Avevo dovuto venire qui inaspettatamente, per molteplici circostanze, e provvedere ad opere di apostolato, alle quali era venuto meno piano già da me prestabilito.

Puoi immaginare con quanto piacere ti rivedrò qui, tanto più che sei disposto a contentarti della mia modestissima ospitalità, della quale i miei fratelli, non sempre, ed a ragione, paiono essere contenti.

Ti mando questa mia per espresso, perché orami siamo alla metà di ottobre e forse tu già sei in procinto di partire per Napoli, per indi recarti a Roma e disporti alla Commemorazione dei Fedeli Defunti. A questo proposito ti dico, sin d’ora, che il 29 corr. ho già fissato che la mia messa sarà celebrata in suf. della tua virtuosa signora e del tuo amatissimo figliuolo Felice e dei tuoi genitori e di tutti i tuoi cari defunti, cui ti piacerà estenderla. Te ne ho dato prevenzione, affinché tu possa unirti meco spiritualmente. E speriamo che la nostra unione nel fare il bene, nel praticare la virtù, e soprattutto nell’amare Iddio e nel dargli gloria in tutto, divenga sempre più salda. La Madonna, nostra madre comune, cui mi auguro, reciti ora ogni giorno la Sua corona del Rosario, saprà bene insegnarcene il modo.

Io ho dovuto prolungare di alcuni giorni la mia permanenza qui, e lunedì o martedì, al più tardi, spero di nuovo tornare a Baronissi, ove ho lasciato varie cose sospese.

Se tu sei anche in procinto di andare a Napoli, per poi passare a Roma, vedi se, nell’andare, puoi fare qualche giorno di sosta qui: ci rivedremmo così dopo oltre quattro anni. In caso affermativo, avvertimi della tua venuta, dell’ora in cui giungerai alla stazione, con un telegramma. Spero poi una tua sosta più lunga in altra tua prossima venuta.

Non mi dilungo di più; assicurandoti il mio costante ricordo nella preghiera, di te, di tuo fratello e anche dei tuoi amatissimi defunti, di vero cuore ti abbraccio e ti benedico.
Sempre tuo
Aff. mo in G.C.

Fortunato M.a Farina
Vescovo di Foggia

P.S. E’ inutile dirti che prego e pregherò per la tribolazione agli occhi. Sta pur sicuro che il Signore e la sua Madre S.S. non ti abbandoneranno.

 

Testimonianza di S.E. Mons. Guido Casullo

Fg. 1925: Pellegrinaggio in treno delle 3 Diocesi Foggia – Troia-Ariano Irpino, alla quale ultima apparteneva quale Seminarista di 1° Liceo lo scrivente sedicenne. Mons. Farina, vescovo da soli 6 anni, era entusiasticamente acclamato come giovane “Vescovo dei Giovani”.

L’appellativo era ben meritato: dovette essere appunto il suo benedetto apostolato tra i giovani di Salerno a metterlo – senza ch’egli lo sospettasse – in buona evidenza davanti all’occhio sagace di Mons. Giuseppe Sinibaldi, Segretario della S.C. dei Seminari, che ritenne di segnalarlo, come pare certo, alla S.C. Concistoriale quando il “candidato” aveva appena 36 anni.

Di Mons. Farina in quel buon Pellegrinaggio ho conservato questi due ricordi: l’abituale dolcissimo intelligente sorriso e lo slancio di cui si animava quando ai Pellegrini delle 3 Diocesi parlava della Madonna.

1932-40: Destinato appena Sacerdote al Seminario Regionale di Benevento ebbi nuove occasioni d’incontrare quello stesso sorriso e quello sguardo più amabilmente penetrante.

Una graziosa iniziativa mariano – giuseppina distinse – davanti a Superiori ed Alunni – la personalità del Vescovo di Troia e Foggia, sin dal primo anno di attività del nuovo Seminario Beneventano.

La grande Cappella venne aperta al Culto con l’unico ovale del S. Cuore al Centro dell’Abside. Molti Alunni accusavano il disagio per l’essenza di una qualsiasi altra Immagine. Quasi clandestinamente Mons. Farina era già alle ricerche nella Chiesa di Napoli ed altrove, di una “bella Madonna” da offrire al S. Padre Pio XI, fondatore del Seminario, perché a Sua volta la destinava al Suo Seminario Beneventano. Fermò la sua attenzione sopra un ovale minore, del De Mura, esposto su un Altare laterale del “Gesù Vecchio” di Napoli. Non fu semplice venirne in possesso ed il come rimane forse un suo segreto. Quando l’ebbe ottenne udienza particolare del Papa che la chiamò “MATER PURISSIMA” accompagnandola di Suo Autografo per la Cappella del “Beneventano”. Lo scopo principale era raggiunto. Il Visitatore non era però soddisfatto, per un motivo che non era solo di ottica o simmetria.

“Santo Padre, saranno ora alle ricerche di un “S. Giuseppe”, ma già prevediamo che la cosa sarà meno semplice, essendo l’iconografia del Santo stesso assai meno abbondante!…”

“Può darsi, Eccellenza, che la soluzione sia più vicino di quanto non pensi”, replicò il S. Padre, che, seduta stante, fece ritirare dalla Sua Cappellina privata un quadro di S. Giuseppe estatico, con il Bambino…

“Non è delle stesse proporzioni del quadro mariano ma l’artista cui vi affiderete saprà risolvere bene il problema”.

“Del resto, soggiunse il S. Padre, v’è un’asimmetria, che a volte riesce più armonica della SIMMETRIA”.

Così ebbe termine un’Udienza singolare, tra lo sguardo interrogativo dell’Anticamera che non si spiegava come qualmente il Segretario di Mons. Farina entrato con un quadro ne portasse via due…

Così il Seminario Beneventano poté avere le due Immagini devote, che non distraggono ma convergono al centro. Si seppe poi che la ..caccia alle buone immagini specie della Madonna da donare a Comunità giovanili o religiose era una “costante” di questo Vescovo, che meritamente si può ritenere innamoratissimo della Madre di Dio.

Ben altra costante temperamentale era quella di perdere le prime corse, quando doveva saggiare.
Una sera giunse al Seminario Regionale verso le ore 22, invece delle ore 16…

“Monsignore, preferisce che la cena le sia servita in camera o arriva al “Refettorio”?

“Ho già provvisto” – mi rispose prontamente.

“Perdoni, Eccellenza, ha provvisto cenando o…rinunziando alla cena?” – replicai -.

E Lui – con un sorriso di bimbo scoperto in una sua birichinata – “Con gli insegnanti di Etica, non si possono fare “restrizioni mentali” e venne a cena regolarmente.

Un’altra “costante” di quel periodo era il parere quasi sempre concorde dei Superiori del Seminario Regionale a favore dei Seminaristi provenienti dalle Diocesi di Mons. Farina: potevano anche non emergere per gli studi, ma in generale si presentavano ben iniziati alla vita di preghiera.

La vita di orazione abituale è infatti la lezione più importante ch’egli impartiva molto più con la testimonianza della sua vita d’ogni giorno, che in altro modo.

Me lo confermò, di passaggio, un Dirigente Centrale dell’Unione Uomini di A. C. che aveva conversato con Mons. Farina, conservandone viva questa impressione.

“Sembra che quel Vescovo, prima di dare una risposta, si mette in ascolto di un Altro, che glielo suggerisce..”.

1940-50 – Nei frequenti Ministeri offertimi da Lui o con la sua approvazione nel suo Seminario o nelle Associazioni delle sue Diocesi, nulla smentiva, tutto confermava la grande stima e venerazione dell’uomo di virtù, pur nei limiti di contingenza spesso complessa…

19.7.43 – Festa dei 5 Santi Patroni. –Dopo una notte febbrile ed insonne gli chiesi se si poteva rinviare il tradizionale panegirico al pomeriggio…”Sarebbe inaudito” mi rispose ed aggiunse: “Si raccomandi a S. URBANO, Patrono dei forestieri e vedrà”… E vidi, grazie a Dio, che S. URBANO fece onore al nome e alla nomea, ma ritengo ancora più alla preghiera per un soccorso urgente fatta dal piissimo Pastore.

Ottobre 1946 – Devo all’incoraggiamento di Mons. Farina se osai per la prima volta parlare a Confratelli Sacerdoti anche più anziani di me, in una settimana di ritiro nel capoluogo della Diocesi: “Ancora nel fervore del Mese Ignaziano di Torino, non potete negarci questa carità fraterna.

Febbraio 1952 – Mi vedo pervenire una sua lettera, con quella grafia chiarissima come le idee e l’anima, con incluso un assegno che valse a capire la spesa della collana d’argento da me acquistata per la Croce pettorale l’anno precedente in occasione della mia nomina a Vescovo: “L’anno scorso nel farvi gli auguri mancai di rimettervi un mio ricordo personale. Accettate che possa rimediare nonostante questo involontario ritardo.

4.2.1954 – Ancora mi parve d’ineffabile gentilezza a distanza di solo due settimane dalla sua piissima morte.
Ero a Foggia per aver predicato un ritiro alle Suore Oblate nel Piccolo Seminario. Monsignore era a letto infermo. Potetti visitarlo e ascoltarlo per circa mezz’ora. In un momento della indimenticabile ultima conversazione mi dice: “L’anno scorso (7.1.1953) battezzai un vostro nipotino di nome Giuseppe. Ma non gli diedi nessun ricordino. Ho messo da parte per lui un bel Crocifisso!”..

Crocifisso lui stesso, nel modo che si sa, trovava la delicatezza di ricordare un bimbo battezzato da oltre un anno e gratificarlo tanto graziosamente.

Se il suo governo ebbe dei limiti – e quale governo non ne ha specie quando arriva la pressoché inevitabile complicità della senectus con il suo indivisibile corteo, quanti lo abbiamo conosciuto non riteniamo poter porre limiti alla sua bontà e pietà di fanciullo e di santo.
Troia, 30 di settembre, 1972

Guido M. Casullo
Vescovo Titolale di Utica
Prelato di Candido Mendes (Brasile)

 

I. RICORDI SU MONS. FARINA

SCRITTI

Sulla prima facciata bianca del mio breviario nel 1943 Mons. Farina scrisse di suo pugno: “La preghiera è l’arma potentissima ed invincibile del sacerdote, perciò lo spirito di orazione è la prima virtù del Cuore di Gesù, di cui il sacerdote deve fare acquisto. Animato da questo spirito quale e quanta stima farà della recita quotidiana e divota dell’Ufficio Divino!”

C’è poi una preghiera alla Madonna incoronata che Mons. Marziale diceva essere stata molto cara a Mons. Farina. Lo spirito e lo stile è del santo nostro pastore. La trascrivo: “O Vergine Incoronata, o Madre nostra, siate benedetta che ancora in questo anno ci concedete di venerare la vostra santa Immagine.

Ai vostri piedi anche noi prostrati, a Voi leviamo la nostra supplichevole voce, che è un grido di fede, di speranza, di riconoscenze, di amore.

Voi, o Vergine Santissima, ben conoscete le necessità nostre e di quali grazie e di quali conforti abbisogniamo. Oppressi da affanni e da croci col cuore straziato da continue amarezze, a chi ricorreremo noi se non a Voi che siete così benigna e pietosa?

A Voi dunque ci affidiamo ora e sempre. E Voi dal Vostro Divin Figliuolo Gesù, deh! Otteneteci che diffonda sopra di noi le Sue infinite misericordie, specialmente nel punto della nostra morte.

O Maria, o bella e dolce Madre Incoronata, Voi consolateci, Voi esauditeci, Voi salvateci. Amen. – Tre Ave Maria –“.

VITA DI PREGHIERA (qualche episodio)

Durante gli anni del seminario diocesano per molto tempo ho dormito nella camerata di S. Giuseppe (quadra) vicino alla scalinata che porta all’Episcopio. Ricordo che Mons. Farina molto tardi rientrava dalla cappella del Seminario dove noi seminaristi l’avevamo lasciato a pregare in ginocchio dopo le preghiere della sera.

Dopo il 1951, quando era solo Vescovo di Foggia, in occasione della festa della Mediatrice a cui volle ancora una volta partecipare, dopo la funzione, mi chiamò, mi prese la mano e con grande affetto mi disse: “Sii sempre devoto della Madonna e buono come quando io ero con voi”.

Nel seminario di Posillipo, in cui seguii il corso teologico, era tenuto nella massima stima, specie da P. Giuseppe De Giovanni che per lui era capace di mettere da parte la sua proverbiale severità. Ricordo che al 2° anno di teologia in marzo 1941 o febbraio fui chiamato insieme con d. Giuseppe Prencipe dal Rettore P. Di Giovanni il quale ci lesse parte di una lettera intima e confidenziale di Mons. Farina con cui questi lo supplicava di mandare me e don Peppino a pregare secondo la sua intenzione la Madonna di Pompei nel santuario omonimo. Il Rettore lo permise, anche se con restrizioni di orari, solo perché era Mons. Farina a chiederlo. E questo dimostra anche con quali mezzi il santo pastore reggeva le sue Diocesi.

Era consuetudine a Posillipo che gli alunni del primo anno si esibissero sulla scena rappresentando opere classiche. Io fui scelto a impersonare Scapino nelle “Furberie di Scapino” del Molière, la cosa riuscì molto bene, tanto che il rettore scrisse con molto entusiasmo a Mons. Farina il quale subito mi inviò una lettera di paterno e delicato rimprovero che terminava con queste parole: “Non ho mai sentito dire che un teologo sia anche pulcinella”. La lettera mi è stata rubata in parrocchia.

I suoi camerieri dicevano che spesso trovavano i cilizi nella sua stanza. Alla formazione dei sacerdoti ci teneva molto. Quando veniva a Benevento o a Posillipo ci chiamava tutti singolarmente per informarsi sull’andamento degli studi, sulle difficoltà spirituali, sullo stato della vocazione, sulle difficoltà finanziarie.

Dava un colpo d’ali a tutti, e si ricominciava a lavorare con più lena. Spesso riempiva i vuoti finanziari. Non ammetteva eccezioni nell’ubbidienza alle disposizioni dei superiori del seminario.

Spesso nel periodo dell’ultima guerra alla vigilia di Natale mi dava pacchi e somme di danari da portare alle famiglie più bisognose e più riservate aggiungendo sempre la raccomandazione di essere discreto e pieno di carità. Io ero già sacerdote. Nel periodo dei bombardamenti si faceva a volte radere da me. Penso che doveva essere una buona penitenza, perché non c’era sapone adatto e il rasoio non era ben affilato. Durante l’operazione sorrideva e alla fine diceva che non ero stato troppo cattivo.

Bramava seguire personalmente le mie iniziative per i giovani studenti; spesso era presente alla loro Messa e vi predicava, mi concedeva tutti i permessi necessari, spesso li chiamava nella sua camera quando non poteva uscire. A volte, quando ero cancelliere della Curia, mi chiamava nella sua stanza e chiedeva con insistenza il mio parere sulle tante questioni di pastorale del momento. Io ero da poco sacerdote e quindi mi sentivo nell’imbarazzo, ma la sua carità e squisita delicatezza mi metteva a mio agio e mi rendeva possibile la discussione. Non poche volte accettava il mio modo di vedere. Quanta umiltà in quell’anima!

Dopo l’angelus faceva recitare queste due preghiere, forse sue:

“O Gesù Sacerdote Eterno e Pastore delle anime, mandate, ve ne preghiamo, alla Chiesa vostra sposa, sacerdoti ripieni del Vostro Spirito, per la salvezza e la santificazione dei popoli redenti dal Vostro Preziosissimo Sangue”.

“O Maria, Madre dell’Eterno Sacerdote, Mediatrice di grazie, otteneteci sacerdoti santi e numerosi che diffondano sempre sui popoli quei tesori di cui siete Benigna Dispensatrice”. Maria, Regina Cleri: ora pro nobis. Regina Apostolorum: ora pro nobis.

12 – 3 – 1971

D. Mario Maitilasso

con autentica della firma del Cancelliere Vescovile
Troia, 12 – 3 – 1971

D. Rolando Mastrulli

 

II. RICORDI SU MONS. FARINA

1) Non so dire nulla circa la sua nascita e la sua vita fino alla nomina a Vescovo di Troia; il ministero episcopale di Mons. Farina si è svolto a Troia dalla fine del 1919 (8 dicembre) al 1951. Ricordo che nel periodo di seminario (1933/1937) fece tenere varie missioni al popolo nelle chiese della diocesi; si premurava di chiamare validi predicatori, dotti, ma soprattutto di grande spiritualità per la quaresima; alla vigilia delle grandi feste (Natale, Pasqua, Domenica delle Palme, S. Giovanni di Dio, festa di grande e sentita devozione popolare, S. Giuseppe), convocava in seminario tutti i sacerdoti della città per la confessione degli uomini e dei giovani. Lui stesso era in cappella per ricevere le confessioni. Questo lavoro si protraeva fino a notte inoltrata, senza alcuna interruzione. Per la formazione perfetta e integrale dei suoi seminaristi e per la salute delle anime non concepiva restrizioni di sacrifici né per sé né per gli altri. In cima al suo pensiero era il Seminario per il quale faceva sacrifici di ogni specie e consumava le sue energie volentieri. Per la formazione culturale chiamava i migliori sacerdoti esperti nelle diverse materie, per la formazione spirituale con il suo illuminato intuito aveva scelto un sacerdote formato da lui e diretto da lui spiritualmente, Mons. Mario De Santis, che era entrato perfettamente nelle vedute apostoliche e nella mentalità di Mons. Farina. Lui stesso spesso interveniva in cappella per dettare ai suoi seminaristi la santa meditazione.
Per la difesa della fede e per la tutela delle anime più di una volta osò affrontare con grande coraggio ed energia i vari nemici (protestanti, comunisti). Solerte pastore seguiva le mosse di questi avversari e li preveniva anche con il comprare case che potevano cadere nelle loro mani ed essere comodi mezzi di propaganda. Appena dopo la guerra nel 1945 durante la processione dei Santi Patroni di Troia, si oppose energicamente, pigliando sotto la sua protezione gli “esploratori” contro una squadraccia di comunisti che, pistole in mano, molestarono la processione e bistrattarono gli esploratori. Il giorno dopo convocò in episcopio sia le autorità americane sia quelle italiane e con forza richiese il loro intervento per i molestatori.
Mai vidi il Vescovo Mons. Farina tanto forte ed energico!
2) Mons. Farina pregava in cappella sua ed in quella del seminario per ore intere, specie a tarda sera. Noi seminaristi lo vedevamo passare per la nostra camerata attigua all’episcopio, a notte fatta. Era umilissimo e affabile: mangiava con noi a refettorio e s’intratteneva con noi scherzando a ricreazione. Aveva spirito di sacrificio enorme; sopportava con giovialità gli enormi fastidi provocati dalla bronchite cronica di cui soffriva che gli procurava una tosse fastidiosissima e continua; portava certamente cilici se è vero quanto affermava il suo cameriere ai miei familiari. Egli diceva di aver spesso trovato in camera di Mons. Vescovo dei cilici.
3) Mons. Farina ideò e mise in atto la Santa Milizia di Gesù, congregazione per la vita comune del clero diocesano. Questa vita comune fu un suo persistente ideale per il quale profuse tutte le sue forze e procurò anche uno stabile che comprò a sue spese. Riteneva questa istituzione indispensabile per la santificazione e la preservazione del clero diocesano. I sacerdoti per lui erano la preoccupazione più importante e l’assillo più vivo.
4) Mons. Farina è morto a Foggia. Era affetto di bronchite che ogni anno lo tormentava per lunghi mesi, specie d’inverno. A noi che gli stavamo vicino per il ministero pastorale faceva enorme pena vederlo soffrire in quel modo. Ha sofferto anche di qualche altra malattia ed ha subito degli interventi chirurgici (forse ernia o anche altro). Non fui presente ai funerali quando dall’episcopio venne trasportato in chiesa, ma fui presente alla celebrazione del pontificale di suffragio e alla tumulazione. C’era moltissima gente che piangeva. Così ricordo.
5) Circa le virtù di Mons. Farina ho già detto qualcosa prima; aggiungo che le sue prediche a noi seminaristi mostravano un animo convintissimo e preso da un forte amore per il Signore Gesù e per la sua Santissima Madre e per le virtù. Inculcava sempre un odio sommo al peccato che sapeva presentare in modo magistrale. Amava teneramente la Madonna: il nostro amore per Lei è frutto della sua formazione. Comprò e regalò ai seminari di Troia: diocesano e comboniano ed al seminario regionale di Benevento tre meravigliosi quadri della “Mater Purissima” sia per dare una forte e materna protezione al lavoro di formazione sacerdotale, sia per rendere possibile suscitare nell’animo dei giovani seminaristi l’amore per tanta Bella Mamma.
Aggiungo ancora che la celebrazione della Santa Messa era lunga e ben meditata. Si preparava ad Essa con lunghe preghiere. Non ho mai notato senso d’abbattimento nel Servo di Dio, ma sempre tanta confidenza nella Provvidenza e nell’aiuto della Mamma Celeste.
6) Tutta la vita del Servo di Dio è stata una continua espressione di amore per il Signore. Il movente delle sue azioni in ogni campo è stato sempre e solo l’Amore di Dio. Era proclive a dare soccorso al prossimo in ogni modo, dopo aver ben conosciuto la vera necessità. In questi casi era quanto mai generoso. Durante la guerra si prodigò per alleviare in tutti i modi le sofferenze degli sfollati. Mise a disposizione il Seminario ed anche alcuni ambienti dell’Episcopio (sottani). Mobilitò seminaristi, teologi e sacerdoti per alleviare le sofferenze degli sfollati. Spendeva il suo patrimonio di famiglia per i bisogni del seminario e dei singoli seminaristi bisognosi. Non rare volte si serviva di noi per far arrivare a famiglie bisognose, in segreto, per evitare ad esse qualunque possibile umiliazione, consistenti aiuti.
7) Rifletteva molto e pregava prima di prendere delle decisioni importanti. Ricordo che nel periodo della mia permanenza nel seminario alla facoltà teologica di Posillipo scrisse al rettore P. Giuseppe Di Giovanni pregandolo di permettere a noi seminaristi della sua diocesi di recarci a Pompei per pregare secondo la sua intenzione e a Pagani sulla tomba di Sant’Alfonso. La richiesta doveva essere molto pressante se il Padre Rettore, rigido da non dirsi, non trovò difficoltà ad assecondare il suo desiderio. In nessuna circostanza fu pusillanime, al contrario si mostrò nei vari periodi sempre forte, energico e irremovibile specie se c’era pericolo pe ril bene delle anime o per la difesa dei diritti della Chiesa.
8) Ebbe sempre massima sensibilità e sollecitudine verso i sacerdoti e verso i seminaristi, per il loro bene spirituale e per i bisogni materiali. Aggiungo per maggiore chiarezza che nelle sofferenze fisiche, nelle tribolazioni della direzione pastorale della diocesi, fu sempre un modello di pazienza, era chiaro che gioiosamente soffriva ed offriva tutto al Signore.
9) Affermo che nel vitto, nell’abitazione, nel modo di vestire, nella soddisfazione delle necessità di viaggio fu sempre estremamente sobrio e modesto. Rifiutò la macchina che, se non ricordo male, i suoi familiari gli avevano regalato per rendergli meno penoso il viaggiare. Il suo comportamento era un comportamento di persona perfettamente controllata da uno spirito soprannaturale e da un forte intento di perfezione.
Povertà: distaccatissimo dai beni terreni che metteva largamente a disposizione dei bisogni della diocesi.
Obbedienza: aveva il culto dell’obbedienza, la inculcava costantemente e la richiedeva tanto da considerare segno di vocazione o di mancanza di vocazione l’esercizio o la non osservanza di detta virtù.
Castità: altra virtù particolarmente amata e curata. Aveva di essa un culto amoroso. Le sue prediche su questo tema erano un canto, un elevante e conquidente poema che innamorava e convinceva. Aveva la capacità di fare amare e stimare fortemente la bella virtù. Essere puro era un autentico segno di vocazione sacerdotale per lui.
Purezza e sacerdozio erano essenzialmente uniti.
Umiltà: mai ha fatto valere la sua profonda e vasta cultura e la sua personalità, al contrario aveva un tratto amabile e non rare volte chiedeva scusa anche a noi giovani sacerdoti per il disturbo che poteva recarci nel chiedere il nostro dovere nei vari uffici o per qualche atteggiamento di forza richiesto doverosamente dalle circostanze della vita pastorale o per qualche rara impennata strappata da atteggiamenti non condivisibili di confratelli sacerdoti. Ricordo un episodio che rivela il suo atteggiamento paterno nel trattare con noi giovani sacerdoti. Un pomeriggio d’estate passeggiando per la terrazza del seminario, durante un discorso su iniziative pastorali su cui volle sentire il mio molto povero parere, mi mise sulla testa il suo zuccetto, mi guardò e disse: “Ti sta quasi bene”. Riprese lo zucchetto e continuò l’analisi dell’iniziativa.
10) Eroicità delle virtù: era un punto ben preciso di riferimento per il nostro cammino spirituale e lo è ancora oggi. Quante volte ci riferiamo al suo modo d’agire ancora oggi! Noi sacerdoti vedevamo in Lui un santo, perché era evidente che aveva come unico intento il farsi santo. Tutta la vita era un esempio di virtù esercitate in modo perfetto. Non conosco doni carismatici o almeno la mia esperienza molto ridotta in tale campo non me l’ha fatto rilevare.
11) Non c’è stata mai alcuna espressione di culto in nessun modo e di nessun genere. Circa la fama di santità. La sua memoria è in benedizione presso tutti. Superiori di seminari, prelati, sacerdoti, popolo, uomini di cultura anche laica conservano di lui una stima enorme; lo ritengono un sacerdote santo e virtuoso. Non conosco fatti straordinari avvenuti per la sua intercessione.
12) Questo è quanto ricordo. Non ho inserito nella breve deposizione alcuni episodi di vita, che ritengono possono rendere una migliore conoscenza delle virtù del servo di Dio. Curava molto la salute dei suoi seminaristi di ogni età. S’interessava minutamente di loro, li faceva visitare da medici di sua fiducia e nel periodo della guerra si prodigava per procurare attraverso le sue amicizie anche le medicine difficilmente trovabili. Era accorto padre, ma non trascurava nessuna circostanza di vita dei suoi seminaristi per dirigerli sulla via della perfezione sacerdotale. Nel seminario di Posillipo gli alunni del primo anno di teologia erano obbligati dal rettore, P. Di Giovanni, a prodursi in qualche rappresentazione teatrale classica, in modo artisticamente perfetto. Il primo anno mio si volle rappresentare l’Adelchi del Manzoni e le Furberie di Scapino del Molière. Per il personaggio di Scapino, pur contro la mia voglia, fui scelto io. Dovetti accettare malgrado il mio stato d’animo del tutto contrario. Se non avessi accettato c’era pericolo di essere tacciato di disobbedienza. Non riuscii a imparare tutta la parte, perché non misi buona voglia, ma con appropriate invenzioni ottenni un ottimo risultato tanto che Padre Rettore si sentì in dovere di scrivere pieno di entusiasmo a Mons. Vescovo. Mi fece pervenire una bella lettera nella quale mi puntualizzava che il sacerdote ed il teologo devono essere santi non buffoni. Nulla sfuggiva al suo affetto di padre e tutto sfruttava per formare mentalità sacerdotali.
Ritengo doveroso aggiungere quanto segue per meglio comprendere la sua azione di pastore accorto e previdente:
a) aveva proibito, sotto pena di sospensione, a tutti i sacerdoti d’impartire lezioni private a ragazze. Dava il permesso solo a sacerdoti anziani;
b) era sempre presente nelle commissioni d’esame a fine d’anno interessandosi minutamente delle possibilità e dell’impegno dei singoli ragazzi. Aiutava coloro che, per le ridotte doti intellettive, non davano soddisfacenti risultati, ma puniva severamente i neghittosi. Tutto era sempre ispirato da un chiaro ed evidente affetto paterno.

Troia, li 24 febbraio 1992.

D. Mario Maitilasso

Con autentica della firma da parte
del Cancelliere Vescovile di Lucera – Troia – Sezione di Troia

D. Rolando Mastrulli
Troia, 24 – 2 – 1992

 

PER S. ECCELLENZA MONS. FORTUNATO M. FARINA

La più bella azione è quella che si compie nel sacrificio, nel dolore, nello sforzo supremo di una inflessibile volontà di bene.

Così ha sempre operato Mons. Farina che oggi chiude un lungo e luminoso episcopato, lasciando come pegno l’esempio della sua vita, spesa tutta a pro delle anime.

Figura mite e pensosa, è il prototipo del sentimento che trascina cieco ed irresistibile e che si perde nell’infinito. È la passione che agita, sconvolge, tortura, che conosce la dolcezza della rinuncia, l’incanto della povertà, l’amarezza dell’ingratitudine, l’indifferenza dell’incomprensione umana.

Venne in mezzo a noi nel lontano 1919, e da quell’anno, per la nostra diocesi, cominciò un rigoglio di primavera. Fu un fiorire di opere: seminario, clero, missioni africane, borse di studio, asili, fatte tutte col cuore sempre aperto verso il cielo, con l’ansia struggente di chi ama e soffre, quasi ad aspettare di là la celeste rugiada.

E la rugiada venne copiosa a rinfrancare le sue infinite energie logorate nello sforzo diuturno di portare alle anime la buona novella, quale pastore di un gregge bisognoso e assetato di cure.

Nulla trascurò mai, anche quando le sue infermità glielo impedivano. E allora la sofferenza del suo cuore divenne grande, perché il palpito ardente di carità, di cui è dotato, ingigantiva sempre più col passare degli anni. Chissà…quante notti insonni trascorse per chiedere al Signore la forza di continuare l’aspra battaglia e in quel momento il suo dolore divenne espressione dell’Amore, perché come tale noi dobbiamo offrirlo a Dio. Dolore sacro, dunque, quanto più vivo ed umano!

Il cuore del nostro divino Maestro non ha legge più amabile della dolcezza, dell’umiltà e della carità…

Mons. Farina ha conosciuto ed amato queste leggi fino al sacrificio, poiché l’azione che non arriva al sacrificio è come uno stelo che non porta in cima il suo fiore. Gesù disse: “Venite ad me omnes qui laborati et onerati estis, et ego reficias vos”. Riportando la parola del Redentore nel suo Vangelo, l’Apostolo S. Matteo ne ha eternata la validità, affidandola, come luminoso stendardo, ai ministri di Dio di tutte le generazioni.

“Anime, anime: portate a me le anime da redimere, incalza Mons. Farina, portate a me le anime che ancora brancolano nel buio della miscredenza e delle false religioni; anche per esse il Signore Gesù ha sofferto il martirio della Croce. Vengano a pascolare anch’esse nei profumati prati della Verità e della Carità”.

Questo è stato sempre, in trentadue anni di episcopato, il suo quotidiano umano anelito: redimere, conquistare al Regno di Dio il maggior numero di anime e di sacerdoti.

In questo grido è l’essenza della sua missione!

E il nostro Seminario, risorto e fiorente, sta lì a testimoniare. Né Mons. Farina poteva fare cosa migliore, poiché il Seminario è la casa ove si educano e si formano i Sacerdoti; sacro laboratorio, ove si plasma il lievito del popolo cristiano, sonante cantiere, ove si fabbricano le navi destinate a solcare le acque burrascose dei tempi per diffondere ovunque le note della fede e il canto della virtù. Casa di Nazareth, dove ancora nel silenzio, nella preghiera, nel lavoro, il Figlio di Dio d’anno in anno, diventa grande in migliaia di giovinezze ardenti e pure e si prepara alla vita pubblica.

La vita diventa un inno al Creatore, quando si compie in povertà. Da povero è vissuto e vive Mons. Farina. L’ammaestramento del Serafico Padre, il quale insegna che la povertà può farci privi di cose, ma di virtù ci arricchisce, è per mons. Farina una norma, perché attendendo con santità d’intenti all’adempimento dei suoi doveri religiosi, affida la sua terrena esistenza all’amorosa Provvidenza del Signore. Soltanto tra le ristrettezze, in mezzo a mille bisogni, ci accorgiamo della vacuità della vita terrena e ci ricordiamo che la miseria fisica spesso custodisce un’anima degna di assidersi tra l’eletta schiera celeste.

Sposo della povertà, mons. Farina ne ha assaporato la dolcezza, la pace, l’intima gioia divina dell’anima che si spoglia di tutto, per farne dono, ed ha toccato il sublime lasciando, a chi gli succederà, una casa ricca e provvista d’ogni conforto.

Questo vuol dire vivere!

Il suo esempio ormai, per noi, è un monito di cui sapremo farne tesoro. Solo l’esempio conta nell’attuazione di una legge o di un’idea. Solo l’esempio può dar vita a quest’idea. Senza di esso l’idea rimarrà una vuota ed insignificante emanazione cerebrale, poiché gli uomini hanno ancora bisogno di fatti tangibili a cui aggrapparsi per vivere e per progredire.

Noi maestri che viviamo a contatto diretto di bimbi, di anime che cercano verità e bellezza, dobbiamo fare appello alla carità e all’amore che, silenziosamente, ci ha insegnato Mons. Farina durante il suo episcopato che è stato, sempre e soltanto, dono totale di sé.

Quello che gli dobbiamo è troppo, perché il profumo della sua carità ci ha indotti a riflettere seriamente sul valore di una vita spesa bene o male. Ci spaventerebbe l’indigenza del debito di gratitudine contratto con lui, se non sapessimo che la ricompensa che dovrà averne è affidata in buone mani.

In questo momento di addio, con cuore vivamente commosso, lo raccomandiamo all’onnipotenza del nostro comune Signore e Padre, perché lo benedica sempre e gli conceda di fare ancora per lungo tempo il bene delle anime che gli sono affidate.

Ed ora. Eccellenza, addio!

Noi qui tutti, prostrati ai vostri piedi, imploriamo la vostra benedizione che sia a noi di viatico sicuro nel faticoso cammino della vita.

Addio, Eccellenza!

I nostri cuori saranno sempre con voi, affinché nelle vostre preghiere ne ascoltiate i battiti e li raccomandiate a Dio. Noi pregheremo per voi, sempre, affinché tutte le vostre aspirazioni si concretino negli onori dell’altare.

Troia, 6 ottobre 1951

Ins. Cacchio Maria

N.d.r.: Questa data precede di un giorno la celebrazione di commiato di Mons. Farina dalla Diocesi di Troia, svoltasi nella Cattedrale di Troia il 7 ottobre 1951.

 

Testimonianza di S. E Mons. Giuseppe Amici

Modena, 6 giugno 1971

Aderisco volentieri all’iniziativa in corso per la raccolta di informazioni e di testimonianze sulla persona di Mons. FORTUNATO MARIA FARINA, mio venerato predecessore nel governo pastorale delle Diocesi di Troia e di Foggia.

I miei rapporti con lui si svolsero in uno spazio piuttosto limitato di tempo: andarono dal momento della mia nomina a Vescovo di Troia e suo Coadiutore per Foggia (maggio 1951) a quello della sua morte (febbraio 1954). Tuttavia essi, pur nella loro brevità, mi misero in condizione di conoscere da vicino la sua persona e la sua opera nelle due Diocesi ed oggi mi consentono di affermare, con piena serenità di coscienza, che veramente in Mons. Farina era riscontrabile un esercizio non ordinario delle virtù cristiane e sacerdotali.

Ebbi il mio primo incontro con lui a S. Angelo Lodigiano (Milano), in occasione della mia consacrazione episcopale, il 28 giugno 1951. Egli era già molto sofferente. Volle tuttavia affrontare la fatica del lungo viaggio da Foggia ed essere uno dei Vescovi Conconsacranti, insieme a Mons. Carlo Confalonieri e Mons. Bignamini. Edificò tutti con la sua presenza, partecipò al pranzo presso l’Istituto delle Suore di S. Maria Cabrini e nei giorni successivi, assecondando le nostre insistenze, si fermò a Milano presso la Clinica “Columbus” tenuta dalle stesse Suore, dove fu sottoposto a visite ed accertamenti medici.

Volle, in quella circostanza, incontrare il Card. Idelfonso Schuster. Lo accompagnai personalmente presso l’Arcivescovado. Fece fatica a salire la lunga scalinata e giunse in cima ad essa con il respiro affannato. Erano le due del pomeriggio. Il Cardinale in quel momento, come era solito fare ogni giorno, stava uscendo per le sue visite pastorali. Si incontrarono proprio al termine della scalinata, si abbracciarono come se tra loro ci fosse una lunga amicizia ed il Cardinale sorridendo esclamò: “Siamo diventati vecchi! Siamo diventati vecchi!”. Non molto tempo dopo egli l’avrebbe preceduto nella casa del Padre.

Prima di fare l’ingresso ufficiale a Troia, che avvenne il 14 ottobre 1951, raggiunsi Foggia e mi fermai qualche giorno in Episcopio con Mons. Farina. La sera nella quale vi giunsi da Milano, ci fu alla stazione un po’ di confusione. Quasi nella stessa ora, con un rapido proveniente da Roma, giungeva il nuovo Prefetto di Foggia, il Dott. D’Aiuto. Un po’ le autorità non sapevano come dividersi per i due arrivi. Le rappresentanze religiose di Troia e di Foggia facevano a gara per prendere l’iniziativa di farmi i primi onori di casa… Quando giunsi in Episcopio. trovai Mons. Farina che mi venne affettuosamente incontro in cima alla scalinata e mi abbracciò con effusione tenendo la corona del Rosario in mano. Mi si disse che egli aveva abbandonato appena qualche ora prima l’Episcopio di Troia.

Nei giorni che trascorsi con lui, prima di salire a Troia, notai l’interiore serenità ed il distacco con cui parlava della Diocesi lasciata. Mi accennò alle sue sofferenze nel momento in cui, nel 1925, la volontà del Papa aveva unito – nella sua persona – il governo della diocesi di Foggia a quello della diocesi di Troia. Non ebbe alcun accenno sui problemi economici della Diocesi e sugli incarichi che intendeva affidarmi. Qualche settimana dopo, mi comunicò, a Troia, il suo desiderio che io mi fossi recato a S. Marco in Lamis per la festa di Cristo Re. Questo comune, della Diocesi di Foggia, aveva una popolazione numericamente notevole.

Questi furono i miei primi contatti con lui. Nel successivo corso del mio lavoro pastorale che, fino al febbraio 1954, si svolse quasi esclusivamente nella diocesi di Troia, ebbi modo di comprendere e apprezzare la reale portata della sua opera nelle due diocesi. Aveva egli dovunque lasciato tracce profonde e sostanziali del suo paesaggio. Le due diocesi, durante il suo episcopato, avevano veramente conosciuta una straordinaria fioritura spirituale.

Il Seminario aveva raggiunta una grande vitalità, le file del Clero erano state rinnovate nella formazione interiore e nell’impegno pastorale, l’organizzazione del laicato aveva fatto passi notevoli e ricchi di promesse, le strutture materiali delle diocesi avevano largamente beneficiato della sua personale munificenza. E, al di sopra di tutto, ciò che più colpiva era il clima spirituale generale che egli era riuscito a creare attorno alla sua persona, che si respirava nelle opere diocesane e che trovava la manifestazione più alta e più tipica nei sacerdoti che erano usciti dalla sua scuola: clima di fervore interiore e di preghiera, di intenso zelo apostolico e di soprannaturalità, di disinteresse e di operosa carità.

Era immediatamente percepibile, in mezzo al Clero ed al popolo, un senso di profonda venerazione per Mons. Farina e questa venerazione non venne mai meno, neppure negli ultimi anni, quando le sue condizioni di salute limitarono considerevolmente le sue possibilità di governo pastorale delle diocesi.

L’esclamazione più comune che si poteva cogliere, sulla bocca del popolo, al momento della sua morte, fu un esplicito e commosso riconoscimento della sua santità: “Era un santo!”. Davanti alla sua salma, che bisognò tenere esposta al pubblico per ben tre giorni, prima in Episcopio e poi in Cattedrale, sfilarono ininterrottamente migliaia di persone, di ogni ceto sociale, provenienti anche dall’intera provincia: era facile scorgere quali sentimenti di affetto, di riconoscenza, di venerazione, di sofferenza profonda fossero dietro quell’estremo saluto che si veniva a dare al Pastore che, per tanti anni, aveva costituito un punto di riferimento spirituale non comune per tutta la terra di Capitanata.

In tutti quegli anni, nella mia predicazione al popolo e nei miei rapporti con il Clero, non feci che riferirmi continuamente a Mons. Farina ed agli esempi di virtù da lui lasciati. Quando si organizzò la funzione ufficiale nella Cattedrale di Foggia, il 5 febbraio 1954, per la mia assunzione delle piene responsabilità di quella diocesi, volli che le mie parole e quelle degli altri non avessero altro oggetto che Mons. Farina ed il suo episcopato. Questo mio agire obbediva innanzitutto ad un’intima convinzione personale; ma rispondeva anche ad una chiara constatazione fatta: avevo percepito quale particolare risonanza spirituale trovavano questi riferimenti continui a Mons. Farina nella massa del popolo e quanto bene ad esso facevano.

Sarebbe lungo enumerare tutte le virtù che rifulsero in lui. Appaiono a me degne di maggior richiamo soprattutto la sua vita di preghiera, la sua vivissima devozione eucaristica e mariana, il suo spirito di assoluta povertà di cui erano testimonianza visibile gli episcopi di Troia e Foggia, la sua vastissima azione di parità verso i più poveri e bisognosi, la sua straordinaria sensibilità e cura premurosissima per le vocazioni ecclesiastiche e religiose (quante Suore hanno donato alla Chiesa, le due diocesi, durante il suo episcopato!) e per la santificazione del Clero.

Non posso chiudere questa mia breve testimonianza senza aggiungere qualche rilievo, che potrà essere utile per una giusta comprensione degli ultimi anni di Mons. Farina. Questi anni, se visti solo dall’esterno e superficialmente, potrebbero forse dare adito in qualcuno a perplessità circa il modo di agire di lui e, quindi, circa la sua virtù. Per comprendere bene le cose è necessario avere davanti un quadro sufficientemente esatto e completo delle vicende e percepire la grande complessità del loro sviluppo.

Realmente esisteva a Foggia, in quel periodo, una situazione difficile. Alla base di essa vi era il progressivo affermarsi d’una divisione nel campo cattolico, la quale iniziava fra alcuni membri del Clero e si diramava nelle associazioni di apostolato laicale e nelle organizzazioni sociali e politiche di ispirazione cristiana.

I primi sintomi si erano manifestati subito dopo la guerra. Alla origine vi erano differenze di temperamenti, di mentalità, di formazioni culturali. Alcuni fattori esterni contribuirono, tuttavia, a porre le premesse materiali perché queste differenze prendessero più nettamente corpo e si esprimessero. Foggia aveva vissuto tutto il dramma della guerra. I bombardamenti del 1943 l’avevano sconvolta materialmente e moralmente, seminando distruzione e morte in tutte le zone della città. In quei mesi tragici, in mezzo all’assenteismo quasi totale delle autorità civili, il Clero restò a fianco al suo popolo e si prodigò in ogni modo per la sepoltura dei morti, l’assistenza ai feriti, la cura degli sfollati, e, quando la bufera fu passata, si pose in prima fila per aiutare la ripresa della vita nella città semidistrutta, promuovendo molteplici iniziative assistenziali e caritative.

In mezzo al Clero si distinsero soprattutto due sacerdoti: Don Renato Luisi e Don Mario Aquilino. Al termine della guerra, per sviluppo naturale e spontaneo delle cose, essi si trovarono investiti di grande prestigio ed autorità morale sia presso il popolo che aveva apprezzate le loro doti nei momenti tragici della prova, sia presso i comandi alleati i quali compresero che non c’erano interlocutori più validi di essi e più vicini alla popolazione, sia presso i primi rappresentanti dei pubblici poteri italiani che faticosamente avviavano la ripresa civile ed amministrativa dello Stato.

Lo stesso Episcopato della Provincia credette opportuno servirsi della loro collaborazione. Le riparazioni alle Chiese ed agli edifici ecclesiastici esigevano lunghe pratiche e trattative con gli uffici civili; la miseria materiale di numerose persone e famiglie imponeva un’organizzazione vasta e complessa degli aiuti che provenivano dalla S. Sede e dagli stessi organi dello Stato; l’eccezionale travaglio sociale del momento chiedeva un particolare rapporto di collaborazione con le autorità civili. L’opera dei due sacerdoti risultò molto utile in quelle particolari circostanze.

Tuttavia la somma di fiducia ad essi accordata esigeva una somma di discrezione e di saggezza. Sarebbe occorso innanzitutto comprendere che l’eccezionalità del momento non poteva essere assunta come misura normale per il proprio stile di presenza e di intervento sacerdotale e poi bisognava mantenere intatto il proprio rapporto di subordinazione col Vescovo, evitando di gestire in proprio o quasi le opere e gli incarichi da lui ricevuti. Le cose purtroppo non andarono così.

Cominciarono a delinearsi i contrasti fra le diverse opere; per la scelta delle persone, per l’assegnazione dei sussidi finanziari pontifici e statali, per le modalità e lo stile della loro direzione. La divisione trovò motivo anche nel modo diverso di concepire i rapporti a un maggior rispetto delle diverse sfere di competenza; l’altra parte era molto meno sensibile su questo punto ed offriva facilmente il fianco all’accusa di interferenza eccessiva ed indebita.

A tutto questo si aggiunsero le complicazioni provenienti dalla politica. Anche a Foggia le forze cattoliche si erano organizzate attorno alla Democrazia Cristiana. Soprattutto dopo il 1948 emersero, in seno a questo partito, profonde divisioni interne, soprattutto fra i più giovani e gli anziani, con tutte le conseguenze facilmente comprensibili. Dolorosamente i due suddetti sacerdoti non uscirono ad estraniarsi da queste divisioni di partito e si trovarono, forse involontariamente, ad essere i punti di riferimento dell’una e dell’altra corrente.

Questo il quadro, appena abbozzato, della difficilissima situazione in quel tormentato dopoguerra a Foggia. Qualunque Vescovo, anche il più valido e preparato, avrebbe fatto fatica a comporla. L’ho sperimentato io e l’hanno sperimentato anche gli altri Vescovi che mi hanno succeduto nella diocesi di Foggia.

Questo stato di cose trovò Mons. Farina nel declino delle sue forze. Le sue condizioni di salute andavano sempre più peggiorando e diminuiva progressivamente la sua possibilità di presenza, di iniziativa e di controllo della situazione. Costretto a restare quasi sempre nel suo episcopio, non poteva rendersi conto pienamente e personalmente dei fatti e, d’altra parte, le persone che più gli erano vicine – nella Segreteria e nella Curia – non erano, in quel momento difficile, all’altezza del compito: lo informavano male e gli facevano dire cose che egli non aveva detto. Né poteva privarsi allora di loro, perché erano implicate in troppe cose della diocesi: solo esse conoscevano lo stato di numerose pratiche ed iniziative avviate. A queste persone aveva egli affidato quasi completamente i settori burocratici ed amministrativi della diocesi, riservando per sé quelli più eminentemente spirituali e pastorali. D’altra parte, i principali protagonisti delle tensioni erano delle personalità molto forti ed avevano prestato – come prima ho detto – notevoli servizi alla diocesi.

Nel momento culminante dei contrasti, una parte fece pressioni perché il Vescovo avesse preso chiara posizione contro l’altra. Mons. Farina si rifiutò di fare questa scelta. D. Luisi lasciò allora il suo ufficio di Vicario Generale. D. Aquilino continuò a conservare i suoi incarichi fino alla morte del Vescovo.

Alla luce di questi fatti, si comprende il mio comportamento dopo la mia venuta laggiù. Concentrai, fino al febbraio 1954, tutta la mia attività nella diocesi di Troia, non intervenendo nella vita della diocesi di Foggia. Mons. Farina non mi aveva assegnato alcun incarico particolare. Alla base di questo atteggiamento penso che ci sia stato, almeno nei primi tempi, il desiderio di non darmi fastidio (era delicatissimo per questo) e la speranza di farmi entrare nelle cose della diocesi non appena queste fossero state meglio ordinate. questa preoccupazione di ordinare le “carte” era grande in lui. E disordine reale vi era, poiché a Foggia, contrariamente a quanto era avvenuto a Troia, non aveva trovato collaboratori adatti per questo. Penso che egli considerasse seriamente l’eventualità di lasciare la diocesi; ma – ripeteva spesso a qualche intimo – non poteva lasciarla in quelle condizioni: bisognava mettere prima un po’ di ordine nelle cose.

Un certo suo irrigidimento su questo punto, negli ultimi mesi, credo che sia dovuto, oltre che all’aggravarsi della malattia, la quale talvolta attutiva in lui la piena lucidità mentale e la presenza spirituale a se stesso, anche al fatto che le persone a lui più vicine, invece di aiutarlo a distaccarsi dalla diocesi e preparare serenamente il trapasso delle responsabilità, gli creavano ostacoli e gli davano informazioni errate e malevoli, quasi che il Vescovo Coadiutore smaniasse di sostituirsi a lui nel governo della diocesi e che a Roma da più parti si tramassero mene segrete contro di lui.

Povero Monsignor Farina, quanto deve aver sofferto!

Io sono convinto che la sua virtù personale esce intatta da tutte queste vicende, che dolorosamente attraversarono la vita della diocesi durante i suoi ultimi anni.

Esse servirono a purificare la sua anima, consumando fino in fondo l’olocausto della sua santa vita.

✝ Giuseppe Amici
Arcivescovo

TESTIMONIANZA DI ANTONIETTA CIPRIANI

Mi chiamo Cipriani Antonietta. Sono nata a Troia il 4 giugno 1924 ed attualmente sono residente a Torino. Sono vedova da dieci anni ed ho 4 figli, tutti sposati.

Oggi, 3 novembre 2005, mi trovo nella Casa del Clero di Foggia, in visita a mia sorella, Suor Stefania Cipriani, che è una delle suore addette all’assistenza dei sacerdoti.

Riguardo a Mons. Farina, io sono testimone di un esorcismo, operato dal santo Vescovo nell’immediato dopoguerra (non ricordo la data precisa).

A quell’epoca io ero una giovane che insieme ad altre ragazze ogni giovedì frequentavamo il laboratorio, aperto dalle Suore Oblate del S. Cuore di Gesù, che erano sfollate a Troia, ospiti nel Palazzo vescovile. Un giorno sentimmo degli schiamazzi provenienti da fuori. Ci affacciamo al balcone e vediamo una carrozza su cui c’era una donna che gridava come una forsennata. Due uomini robusti la presero e la stavano conducendo sopra il Palazzo Vescovile. Questa donna gridava e si dimenava, perché non voleva essere condotta dinanzi al Vescovo. Intanto i due uomini avevano riferito a tutte noi, che stavamo a guardare, che la suddetta in campagna, dove abitava, aveva detto: “è inutile che mi portate a destra e a sinistra e nemmeno dal Papa, perché io sto bene qua. Soltanto se mi portate da Mons. Fortunato Maria Farina a Troia, vado via”.

I due uomini trasportano la poveretta di peso dinanzi a Mons. Farina, il quale si trovava nella Cappella a pregare. Quando egli, uscito dalla cappella, vide questa donna in questo stato, la fece accomodare su una sedia, sostenuta sempre dai due suddetti uomini. Noi tutte ragazze, insieme con le suore, eravamo lì vicino in Episcopio ed abbiamo assistito a tutta la scena. Mons. Farina si rivolse a noi tutte e ci invitò ad unirci alle sue preghiere.

Voglio aggiungere che questa donna abitava in una campagna, che si chiamava “Tavernazza”, distante circa tre o quattro chilometri da Troia, sulla strada verso Foggia. E lì era da tutti risaputo che c’era questa donna, posseduta dal demonio. Per esempio si raccontava un episodio avvenuto lì, in campagna, mentre donne ed uomini zappavano il terreno, dove erano piantate le fave: ognuno faceva il suo solco. Ebbene, questa donna in alcuni momenti correva come un missile, finendo molto prima degli altri il solco. Alla fine del solco c’era il pozzo, dove attingevano l’acqua. E più di una volta questa donna diceva a se stessa: “Bùttati giù nel pozzo, perché io ti prendo di sotto”. E lei stessa rispondeva: “No, io non mi butto!” Ed il marito le stava sempre vicino, per impedirle qualche “pazzia”.

Ora ritorno a raccontare quello che ho visto nell’Episcopio di Troia. La stanza dove è avvenuto l’esorcismo era stretta e lunga: non aveva porta, ma solo una tenda di cotone. Per questo noi non abbiamo visto la scena direttamente, a causa di questa tenda, ma abbiamo sentito tutto, perché eravamo lì a rispondere alle preghiere del Vescovo, il quale recitò prima le Litanie dei Santi, poi le Litanie della Madonna, sempre in duplice lingua: prima in latino e poi in italiano. Mons. Farina dopo queste preghiere porgeva il Crocifisso da baciare, ma quella donna lo respingeva con disprezzo, dicendo: “Via, via”! Poi il Vescovo ha cominciato ad invocare prima S. Michele Arcangelo e dopo la Vergine Maria. Nel frattempo questa donna urlava e strepitava. Poi Mons. Farina le faceva delle domande in italiano e in latino. La donna alcune volte rispondeva, sia in italiano che in latino, altre volte non rispondeva nulla. Mons. Farina ripetette più volte queste domande: “Perché ti trovi qui, perché non vuoi andare via?” La donna diceva: “Non voglio rispondere”. Altre volte rispondeva in latino e noi non capivamo.

Alla fine, dopo più di mezz’ora dal tempo in cui era iniziato l’esorcismo, da questa donna uscì una voce grossolana ed arrabbiata: “Arrivederci, vado via!” E si sentì come il rumore di un vento forte che uscì fuori dalla finestra che era nella stanza. Noi profittammo del trambusto per aprire la tenda e vedemmo ancora Mons. Farina che mostrava alla donna il Crocifisso, invitandola a baciarlo. La donna abbracciò il Crocifisso e lo baciò. Poi ricevette la benedizione del Vescovo e con grande pace andò via insieme ai due uomini che l’avevano accompagnata.

In fede.

Foggia, 3 novembre 2005.

I miei ricordi personali sul Venerabile Mons. Farina

Testimonianza di Don Paolo Pesante

Sono entrato in seminario il 18 novembre 1948, all’età di 11 anni. Dopo qualche giorno, il Vescovo, mons. Farina, mi chiamò e mi domandò: “Come ti chiami? Quanti anni hai?” E mi fece il calcolo, dicendo: “Ecco, adesso fai la conta: piglierai la messa a 24 anni, se tutto andrà bene…”. Poi si interessò della situazione economica della mia famiglia, che era molto disagiata. Io gli dissi: “Monsignore, noi non abbiamo possibilità, siamo otto figli, senza padre…”. Mi rispose: “Non ti preoccupare, figliuolo, ci penseremo noi”. E, perciò, il Vescovo ha provveduto alla mia retta per il seminario.

Durante le vacanze, dopo il primo incontro, lui mi pigliò tanto a benvolere. Conoscendo la mia situazione familiare, – vivevamo in una stanza sola, otto figli e mia mamma, tutti lì dentro; non si guadagnava niente; comunque, si stava bene, perché c’era amore – Mons. Farina volle che durante le vacanze dormissi in episcopio. Praticamente, dalle prime classi delle scuole medie fino al quinto Ginnasio, durante le vacanze, ho dormito in episcopio. Quando, poi, come Vescovo di Foggia subentrò Mons. Amici, durante le vacanze degli anni del Seminario andai a dormire nella Casa del Clero.

Quando dormivo in episcopio, Mons. Farina voleva anche che ogni sera cenassi con lui. Inoltre, per ben due volte si verificò che io, dopo che già mi ero messo a letto, sentii bussare alla mia porta. Era lui, il Vescovo.

“Ti sei messo a letto?”, mi disse. “Sì, Eccellenza – risposi – sono stanco e mi sono messo a letto”.

E lui: “ Ho sentito che hai tossito… se hai la tosse, ecco, ti ho portato un po’ di sciroppo”. E mi portò un bottiglione di sciroppo: era una bottiglia grande, la ricordo ancora. Poi un’altra volta mi bussò e mi offrì un piatto di frutta fresca, dicendomi: “L’ho avuta adesso: mangiala, questa è buona e ti fa bene”:

Durante le vacanze, ogni giorno, ci trovavamo tutti i seminaristi in episcopio, ed il Vescovo presiedeva la lettura spirituale. Durante questo incontro quotidiano nell’Episcopio si recitava prima il Vespro della Madonna, del piccolo ufficio della Madonna, poi si faceva la lettura spirituale e dopo ci si intratteneva col Vescovo. Mangiavamo una cosina: ora latte e biscottini, non so, a volte qualche altra cosa, ed egli scherzava con noi… Ricordo, a tale proposito, che uno dei seminaristi aveva i capelli troppo lunghi, e lui cominciò a scherzare un po’ e a dire: “Questi capelli…”, e voleva pigliare le forbici per tagliarli…

Nella vita del Seminario lo vedevamo in mezzo a noi continuamente! Non era il Vescovo che stava per i fatti suoi… Nei primi anni veniva a mangiare anche con noi, in seminario, dove si sa come si mangiava, e la mensa era uguale per tutti, le tavole erano senza tovaglia e non c’era nessuna distinzione tra noi e il Vescovo e i superiori. E ci teneva ad essere il rettore del seminario, non di nome, ma di fatto. Egli chiamava i seminaristi uno alla volta e conversavo con loro, interessandosi minuziosamente delle situazioni di ciascuno di noi.

Questi brevi cenni sulla mia esperienza a contatto con Mons. Farina indicano quanto grande era il suo cuore. Io e gli altri seminaristi eravamo dei ragazzotti. Eppure il Vescovo aveva verso di noi un rispetto ed un’attenzione tale, che noi tutti seminaristi eravamo molto colpiti da questa sua bontà: lo sentivamo tutti come un padre, che si interessava non solo della formazione in Seminario, ma anche della nostra salute e delle nostre condizioni familiari. Mi risulta che in alcune situazioni di povertà il Vescovo non solo ha provveduto per il seminarista, ma ha dato aiuto economico anche alla sua famiglia.

Un altro fatto che mi è rimasto impresso è quello che ho visto nell’aprile del 1950. Monsignore stette proprio male, tanto che gli fu amministrata l’Unzione degli Infermi con il Viatico dal Vicario Generale della Diocesi di Troia, Mons. Maielli, che era pure Arcidiacono del Capitolo. Ebbi un’impressione commovente, nel vedere un po’ l’interessamento da parte non solamente del clero – sacerdoti da ogni parte, vescovi – ma in modo particolare anche da parte del popolo: era una processione continua di gente, la quale si interessava della salute del Vescovo. E ricordo che Mons. Fares – era già Vescovo in quell’epoca – disse a noi, seminaristi: “Andiamo a pregare tutti insieme in chiesa”; e andammo tutti quanti a fare un’ora di adorazione per la salute del Vescovo. E insieme con noi si unì una marea di popolo, a pregare per la salute del Vescovo. Le nostre preghiere furono ascoltate, perché il Vescovo si riprese.

L’ultimo ricordo, che mi è rimasto impresso, risale a qualche mese prima della morte, e cioè al 13 dicembre 1953. Mons. Farina doveva consacrare Vescovo P. Agostino Castrillo nella Chiesa di Gesù e Maria; arrivò in ritardo, perché la notte era stato malissimo. Nonostante ciò, venne ed iniziò la sacra funzione. Io, nella qualità di ministrante, gli stavo vicino e tenevo tra le mani un suo fazzoletto, che gli porgevo per asciugarsi il naso che aveva perdite continue di sangue durante tutta la sacra celebrazione. Queste sue condizioni di salute non gli impedirono di pronunziare un’omelia sul ministero episcopale del Vescovo, che toccò il cuore di tutti i presenti, soprattutto perché sembrava – come ebbe a dire p. Bonaventura Albano, allora parroco di Gesù e Maria – che fosse il suo autoritratto. Un paio di mesi dopo ha cessato di vivere.

Aggiungo, infine, che quando la sera di sabato 20 febbraio Mons. Farina rese la sua anima a Dio, Mons. Amici, allora Vescovo di Troia e Foggia, nel vedere la marea di popolo che dalle prime ore della domenica, appena si sparse la notizia del decesso del Vescovo, cominciava ad affluire in episcopio – io mi trovavo in episcopio – uscì in questa frase: “Veramente è un santo; abbiamo perduto un santo”.

Poi, il lunedì successivo la salma, accompagnata da una folla immensa di popolo, fu portata in cattedrale per la celebrazione delle esequie, che ebbero luogo il martedì seguente. Ad essa presero parte parecchi vescovi e tantissimi sacerdoti. Prima delle esequie in cattedrale al popolo si fece ascoltare un discorso registrato di Mons. Farina sulle vocazioni. Sua Eccellenza mons. Casullo, allora Vescovo di Nusco, che nel frattempo stava celebrando la Santa Messa, nel sentire la voce del Vescovo parlare sulle vocazioni cominciò a piangere a dirotto per tutto il tempo della Santa Messa.

Concludo, affermando che per me è stato un grande dono del Signore l’aver avuto nei primi anni del mio Seminario questa grande figura di Vescovo, come guida e maestro. Egli ha lasciato nel mio cuore un’impronta indelebile per il suo spirito di preghiera, per il suo zelo apostolico e per il suo esempio di amore non solo verso di noi seminaristi, ma anche verso i sacerdoti e verso tutti i laici, con un’attenzione particolare per i poveri, per i sofferenti ed anche per i non credenti.

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